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Effetto collaterale dell’uguaglianza

di Carlo Bastasin

(Ap)

5' di lettura

In Europa, e in particolare in Italia, il successo di Donald Trump è stato interpretato come una ribellione dei perdenti nei confronti di un’élite che ha sequestrato tutti i benefici della globalizzazione, lasciando agli altri tutti i disagi. I leader politici europei che simpatizzano per Trump hanno potuto così salire su un piedistallo morale, come difensori della giustizia sociale, come condottieri della rivolta del popolo contro l’un percento della società. Ma come mai allora in America i perdenti della globalizzazione avrebbero scelto come campione della loro rivalsa proprio Trump, il più vistoso tra i simboli della società dei privilegiati, l’un percento dell’un percento?

Insofferenza per l’uguaglianza

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C’è una possibilità molto meno consolatoria, rispetto alla ricerca di maggiore giustizia sociale, che va tenuta in considerazione. Il sostegno a Trump non deriverebbe da un senso di iniquità causato dalla diseguale distribuzione dei redditi che caratterizza le società sottoposte alla trasformazione globale, ma a un’insofferenza da parte dell’elettorato bianco meno istruito per la crescente eguaglianza “etnica” provocata dal dinamismo dell’economia: la crescita di una fascia affluente afro-americana; il prevalere dell’immigrazione ispanica nei nuovi lavori e nei benefici dell’assistenza sanitaria; la presa di potere femminile nel mondo del lavoro e infine l’evoluzione delle politiche di genere che hanno messo in dubbio la tradizionale prevalenza maschile non solo nel lavoro, ma perfino all’interno della famiglia.

Non una ribellione contro la disuguaglianza dunque, ma contro l’uguaglianza. Le donne rappresentano ormai il 50% della forza lavoro americana e la quota delle ragazze da tempo ha superato quella dei colleghi maschi nel totale dei laureati nelle università. Manager donne sono a capo di grandi imprese, e da loro dipendono centinaia di migliaia di lavoratori maschi. La classe media bianca dei lavori tradizionali vede che gli afro-americani affluenti sono l’unico gruppo di classe media il cui reddito è aumentato del doppio rispetto al resto negli anni tra il 2005 e il 2015. La nuova immigrazione sia ispanica sia extra-americana ha colto le opportunità di nuovi lavori, benché a basso reddito, nei settori agricolo e dell’energia che hanno portato gli immigrati a impiegarsi non più solo nelle grandi città ma nella provincia americana dove la popolazione residente è stata presa di sorpresa dal cambiamento demografico e professionale. I nuovi arrivati inoltre hanno potuto subito usufruire della nuova assistenza sanitaria, il progetto politico più caro a Barack Obama, primo presidente afro-americano. Washington è diventata rapidamente il bersaglio del disagio.

Visto da questa prospettiva, diventa più comprensibile perché i perdenti della trasformazione economica abbiano scelto di votare un bianco, maschilista, anti-immigrati, anziano e regressivo fin nello slogan con cui prometteva di riportare l’America a quella che era un tempo. In questo contesto il fatto che Trump appartenga all’élite dell’élite ne rafforza l’attrattiva, perché sancisce proprio il senso di rivalsa dei suoi sostenitori.

Naturalmente se Trump non è il testimone di un bisogno di uguaglianza, ma del suo contrario, il significato della sua politica cambia completamente. I suoi sostenitori europei anziché difensori dei perdenti diventano nostalgici di un’era in cui le discriminazioni etniche e di genere erano salde. Anche nella società europea la crisi dell’integrazione e gli effetti finanziari e reali della globalizzazione hanno riaperto contrapposizioni geografiche, a cominciare da quella tra nord e sud, contrabbandate da “guerra delle idee” e presto diventate forme di ideologia. D’altronde, quando ci si aggrappa alle distinzioni etniche, per tribù e per nazioni, si finisce inevitabilmente per ragionare in termini tribali o nazionalisti.

Ma la reazione dell’elettorato americano bianco e poco istruito non può essere liquidata solo come un riflesso razzista. Le statistiche elaborate tra gli altri da Angus Deaton dimostrano come l’aspettativa di vita in quel gruppo di cittadini è scesa più che in tutti gli altri (tranne per gli afro-americani delle periferie e per le classi più povere) al seguito di comportamenti autodistruttivi: abuso di sostanze, di alcool e suicidi. Per quanto primitiva la lettura politica, la loro sofferenza è reale, andava riconosciuta e rispettata, mentre è stata interamente trascurata.

Una società lacerata

Quando dieci anni fa pochi sociologi, tra tutti Charles Murray, avevano lanciato l’allarme sulla società americana che si lacerava, furono anch’essi sospettati di pregiudizi etnici. Descrivevano da una parte ricchi sempre più ricchi, più sociali e più istruiti, che si erano fisicamente isolati da poveri che erano così ai margini degli usi sociali tradizionali (madri sole e famiglie non integre, abbandono delle comunità civiche e religiose, rinuncia al lavoro e al rispetto delle leggi) da produrre una selezione avversa, con conseguenze sul livello psichico e intellettivo dei figli. Da questa considerazione, giudicata politicamente scorretta, nacquero enormi controversie che soffocarono il grido di allarme che era stato lanciato.

Quello che era un movimento tettonico della società americana, negli ultimi dieci anni è diventato invece un fenomeno politico dal basso, sempre più vistoso. La società ha cominciato a dividersi e dalla partisanship tradizionale tra due grandi partiti si è passati a una società polarizzata. Nei grafici di Pew Research si vede come tra il 2004 e il 2014 l’elettore medio repubblicano e quello democratico si distanziano marcatamente. Dalla polarizzazione si è arrivati poi alla radicalizzazione dell’elettorato con le estreme “conservative” e “liberal” che hanno preso il sopravvento rispetto alle posizioni più moderate nei due partiti. Mentre nel 2004 l’area di sovrapposizione tra gli elettori dei due partiti era prevalente rispetto alle code della distribuzione – consentendo nel 2008 addirittura a un outsider afro-americano di presentarsi come presidente che univa il paese – dal 2014 solo un candidato su una delle posizioni estreme dell’elettorato avrebbe potuto vincere. Ma dalla radicalizzazione si è poi passati addirittura all’antagonismo. Nel 2016 una maggioranza di elettori democratici e repubblicani riteneva che gli elettori dell’altro partito fossero una minaccia per il benessere del Paese, o quantomeno una seria insidia. Questi sentimenti disseminati nel discorso pubblico sono stati internalizzati dai cittadini in modo così profondo che un terzo dell’elettorato americano oggi dichiara di preferire abitare solo dove vivono vicini di casa che la pensano politicamente allo stesso modo. Inoltre sarebbe molto dispiaciuto se in famiglia entrasse qualcuno che la pensa in modo politicamente diverso. Lungo questo processo di segmentazione, si finisce per costruire ambienti culturali auto-riferiti, proprio quelle “camere di risonanza” comuni anche ai social media in cui ci si confronta solo tra persone che la pensano allo stesso modo. In questi ambienti si finisce per condividere opinioni che riflettono una realtà conforme ai convincimenti condivisi. Addirittura credere alla stessa finzione della realtà diventa una specie di prova di lealtà che filtra gli interlocutori rendendoli ancora più fedeli l’uno all’altro. È questa la base su cui si costruiscono “i fatti alternativi” e su cui prosperano “le notizie finte” che caratterizzano questo turbolento periodo della politica americana.

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