Egitto-Etiopia, accordo entro quattro mesi per la «Diga della rinascita» sul Nilo
Si riapre la saga diplomatica per il più grande impianto idroelettrico dell’Africa, al centro di tensioni fra il Cairo e Addis Abeba. L’obiettivo è strappare un’intesa entro l’anno
di Alberto Magnani
I punti chiave
3' di lettura
Egitto ed Etiopia tornano a trattare sul dossier più insidioso fra i due: le operazioni della Grand Ethiopian Renaissance Dam, la maxi-diga sul Nilo azzurro costruita da Addis Abeba e avversata dal Cairo perché «ruberebbe» la quasi totalità delle risorse idriche egiziane. Non è il primo round di negoziati agli atti, dopo il flop di quelli triangolati da Unione africana e Stati Uniti per arginare un’escalation già scivolata sull’orlo delle minacce militari. Sulla carta, però, i termini devono essere più chiari: il presidente egiziano al-Sisi e il premier etiope Abiy Ahmed hanno concordato di raggiungere un’intesa entro quattro mesi e di coinvolgere nell’accordo il Sudan, allineato all’Egitto nell’ostilità all’attuale progetto etiope ma oggi assorbito dal conflitto intestino fra l’esercito regolare e i paramiliari delle Rapid support forces.
La saga diplomatica sulla «Diga della rinascita»
Le trattative aprono l’ennesimo capitolo di una saga diplomatica iniziata con l’annuncio stesso della «Diga della rinascita», come il governo etiope ha ribattezzato un’opera affidata all’italiana Webuild e destinata a soppiantare la povertà energetica del secondo Paese più popoloso dell’Africa. La diga, immaginata per la volta negli anni ’60 del secolo scorso, è lunga 1.800 metri e alta 170, con una capacità stimata di contenere 74 miliardi di metri cubi d'acqua e generare oltre 5mila megawatt di energia grazie alle due centrali installate ai suoi piedi. Numeri che la eleggerebbero, a regime, come il più grande impianto idroelettrico su scala africana, affrontando le carenze di forniture che condannano un’economia in crescita da decenni a blackout e ritardi nella produzione.
Non sorprende che l’opera sia diventata uno dei pilastri dell’agenda di riforme avviata da Abiy Ahmed nella fase ascendente della sua premiership e poi interrotte dal doppio trauma di Covid e guerra civile dilagata del 2020-2022 con i ribelli settentrionali del Tigray. Né che la sua progettazione abbia scatenato tensioni fin dalle origini, in uno scambio di accuse reciproche che ha fatto paventare interventi dell’esercito o “soli” strappi diplomatici in una regione tutt’altro che stabile.
Le ragioni della contesa sono note e riguardano il peso sia simbolico che effettivo del Nilo sui tre Paesi e rispettivi sistemi economici. L’Egitto attinge dal Nilo fino al 97% delle sue risorse idriche e insiste da tempo perché vengano fissati dei paletti sulle operazioni della diga etiope, temendo un drenaggio di acque con ricadute letali sulla produzione agricola e la tenuta di un Paese già scosso da inflazione e instabilità. Il Sudan gode di un peso minore nel faccia a faccia fra il Cairo e Addis Abeba ma si è sempre schierata con l’Egitto contro la minaccia «esistenziale» di un gigante che sorge a pochi chilometri dai confini sudanesi.
L’Etiopia ha sempre sostenuto che la diga non intaccherebbe l’approvvigionamento idrico di Egitto e Sudan, salvo finire ai ferri corti con i due partner sulla richiesta di al-Sisi: la garanzie di quote che assicurino il rifornimento d’acqua a entrambi i Paesi, vincolando l’operatività della «Gerd» a criteri stabiliti insieme al Cairo e Khartoum. Finora i compromessi sono sfumati, chiudendo i round negoziali con un nulla di fatto che ha aumentato il nervosismo e lasciato in sospeso la risoluzione del conflitto. Ora le scadenze per scendere a patti sono chiare. Non è detto che i termini dell’accordo, e la sua affidabilità, lo siano.
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