El-Erian: «Banche centrali, serve una visione più strategica»
Il capo economista di Allianz critica l’eccessiva dipendenza dai dati e lo sguardo al breve termine di Fed e Bce. E da Cernobbio mostra ottimismo sull’Italia, «ma la tassa sugli extra-profitti andava concordata con le banche, senza sorprese sui mercati».
di Maximilian Cellino
4' di lettura
«Hanno sbagliato due volte, prima insistendo nella convinzione che il rialzo dell’inflazione fosse transitorio poi, quando si sono rese conto dell’errore, nel reagire in modo tardivo o con misure in un primo momento non sufficienti». Non è mai apparso particolarmente accondiscendente nei confronti delle Banche centrali, Mohamed El-Erian. Il chief economic advisor di Allianz, con un passato in Pimco oltre che da ex presidente del Consiglio per lo sviluppo globale di Obama, è stato anzi più volte pronto a criticare il loro operato in tempi non sospetti e torna a farlo anche durante il Workshop The European House Ambrosetti sollevando nuovi dubbi. «Il problema di oggi – spiega in un colloquio a Il Sole 24 ore – è che le decisioni di politica monetaria restano eccessivamente dipendenti dai dati macroeconomici, ma in questo modo si pensa troppo al breve termine e manca una visione strategica».
Pensa che la loro credibilità sia compromessa?
Le principali Banche centrali hanno commesso tre grandi errori, nell’analizzare la situazione macro, nell’effettuare le previsioni e nel passare all’azione in modo tardivo. A questi la Federal Reserve ha aggiunto una comunicazione fallimentare e un difetto nella supervisione sul sistema finanziario. Quella che in generale è mancata è una visione di insieme: non si è mantenuta una mentalità aperta, non si sono ascoltate abbastanza le imprese e ci si è affidati a modelli obsoleti. Stiamo quindi facendo i conti con gli effetti negativi e i danni collaterali dell’aver mantenuto troppo a lungo una politica monetaria espansiva e di essere dovuti ricorrere poi a misure molto più marcate e rapide di quanto ci si potesse aspettasse, le cui conseguenze restano in gran parte ancora ignote.
Ed è per questo che si rimane in perenne attesa dei dati prima di prendere decisioni?
Esatto, ed è un controsenso perché se tutti sono concordi nell’ammettere che la politica monetaria agisca con un ritardo compreso fra 6 e 18 mesi, i dati che osserviamo riflettono invece il passato. Occorre quindi un approccio più strategico e meno rivolto al breve termine e ho apprezzato sotto questo aspetto il discorso tenuto una settimana fa a Jackson Hole dal presidente Bce, Christine Lagarde: le sue parole mi sono parse un buon segnale, molto più lungimiranti di quelle pronunciate dal collega Jerome Powell.
Accennava alla stabilità finanziaria negli Stati Uniti, pensa che sia davvero a rischio?
Durante il quantitative easing si è formata la convinzione errata che il periodo di tassi di interesse bassi o addirittura negativi potesse estendersi all’infinito. Questo ha comportato un cambiamento di comportamento da parte delle banche, in particolar modo quelle meno regolamentate come le varie Silicon Valley Bank, First Republic o Signature e da parte di alcuni soggetti non finanziari, i cui bilanci si sono riempiti di posizioni che poi si sono danneggiate molto facilmente quando i tassi di interesse sono aumentati rapidamente. Su questo esistono responsabilità precise da parte dei regolatori, e non sono io il solo a dirlo: la stessa Fed ha pubblicato lo scorso aprile un rapporto molto critico nei confronti delle proprie pratiche di vigilanza.
Esiste poi una questione reale attorno al debito Usa, che è in costante crescita nel momento in cui la Fed ha smesso di acquistare titoli, anzi li vende, e l’appetito verso i Treasury di investitori tradizionali come Cina e Giappone sta venendo meno.
Questa è la ragione principale per cui assistiamo a una volatilità elevata sui rendimenti Usa a lungo termine. Da una parte c'è infatti chi sostiene che i tassi del Treasury decennale debbano aumentare al 4,5% in modo da attirare la domanda su questi strumenti, dall’altra chi invece pensa che sia necessaria una loro discesa al 3,5% per riflettere il calo dell’inflazione e il rallentamento dell’economia. I movimenti frenetici di queste due settimane riflettono il braccio di ferro fra queste due forze contrastanti.
Resta anche lei dell’idea che gli Stati Uniti si avviino ormai verso un atterraggio morbido?
Nell’arco degli ultimi 12 mesi la narrativa comune è passata nell’ordine da attese di atterraggio morbido, atterraggio duro, nessun atterraggio, nuovamente atterraggio duro, atterraggio di emergenza dopo i fallimenti bancari di marzo, poi ancora atterraggio duro. Ora il consenso maggiore è di nuovo orientato verso un atterraggio morbido, dopo aver cambiato idea sette volte in meno di un anno: ancora una volta è l’eccessiva dipendenza dai dati delle Banche centrali a condizionare il mercato e a creare queste distorsioni.
P assiamo all’Italia, sei mesi fa qua a Cernobbio sosteneva con favore l’approccio responsabile del Governo nell’affrontare le questioni principali, ad esempio la politica fiscale. È cambiato qualcosa?
L’impegno verso il rigore non è venuto meno, ma qualche dubbio sul modo in cui vengono attuati questi propositi è sorto. Mi riferisco in particolare alla questione della tassazione degli extra-profitti delle banche: in via teorica molti economisti sono favorevoli a un provvedimento simile, messo in atto anche da Paesi quali Gran Bretagna e Spagna. Deve però essere adottato consultando l’industria e in accordo con essa, non prendendo di sorpresa tutti e in un giorno della settimana. Questo genere di misure dovrebbe essere annunciato il venerdì a mercati chiusi per poi dare modo al Governo di spiegare le proprie intenzioni.
Che idea si è fatto del nostro Paese in questi giorni?
Sono rimasto impressionato dalla positività delle aziende e dalla loro fiducia sull’occupazione, sulla domanda e sui ricavi. Bisogna però tenere d’occhio Germania e Cina, due economie così fondamentali per l’Italia e alle prese con problemi strutturali importanti.
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