Elezioni, la rivoluzione «social» e il doppio volto delle campagne web
di Fabio Carducci
6' di lettura
Prima di vincere le elezioni in Florida e Pennsylvania , Donald Trump le aveva già vinte su Facebook e Twitter. Ha avuto per tutti gli ultimi sei mesi di campagna il doppio dei fan di Hillary Clinton. Attenzione: sarebbe sbagliato affermare che chi “vince” sui social vince nel Paese. Ma è indubbio che i social hanno cambiato per sempre il terreno di gioco e le regole della competizione elettorale, negli Stati Uniti come in Italia.
Rivoluzione social
Nella pianificazione delle strategie di comunicazione, spiega Gianpietro Mazzoleni, professore di Comunicazione politica all’Università di Milano, un candidato o un partito devono necessariamente fare affidamento sulla Rete per massimizzare l’impatto di un comunicato o di uno slogan o di una raccolta fondi, e devono essere pronti a rispondere adeguatamente agli attacchi e alle controffensive degli avversari. I candidati devono investire risorse finanziarie e umane notevoli per tenere il controllo dei flussi via social, impiegando molti esperti. Inoltre con il web 2.0, sottolinea Gianluca Giansante, docente di comunicazione politica della Luiss «il messaggio che prima con la televisione era unidirezionale ora diventa bidirezionale. Ma se si chiede solo consenso senza ascoltare, le persone se ne accorgono e non partecipano affatto o addirittura criticano queste iniziative».
Da Trump a Grillo
L’Italia, come tutto il pianeta, è stata “colonizzata” dai social network a stelle e strisce, ma i sistemi elettorali restano diversi. Quindi ciò che può aver successo in Florida può fallire in Campania. Obama, sottolinea Mazzoleni, nel 2008 vinse alla grande grazie a un impiego intelligente di Facebook, Trump ha vinto quest’anno ma è ancora difficile dire quanta parte del successo si deve ai social e quanta alla copertura mediatica smisurata unita alla sua innegabile capacità di “parlare alla pancia” della middle class americana. In Italia, nonostante Renzi sia un “leader-social”, sul referendum costituzionale ha perso. Ma anche qui la comunicazione non è tutto. «Nel 2013 e alle ultime comunali – fa notare Mazzoleni – il M5S non ha vinto certo perché sa usare la Rete, ma perché ha intercettato la rabbia e l’antipolitica che caratterizzano l’attuale fase politica italiana».
La lenta marcia dei partiti
Per competere nel nuovo ecosistema dei media, anche i partiti italiani sono sbarcati ormai da tempo in forze sui social. Ma con tempi di reazione e pesi
diversi. Se il M5S è un caso a parte, l’unicum di un partito costruito sulla rete, Renzi e il Pd hanno investito risorse crescenti fino ad affidarsi in occasione dell’ultimo referendum, senza successo, al guru di Obama, Jim Messina. Mentre altri partiti come il Ncd, ma anche Lega Nord e Forza Italia, contano più sul movimentismo o presenzialismo dei rispettivi leader che non sulla gestione capillare della comunicazione sulla rete: fanno affidamento ancora sulle vecchie appartenenze, rinfrescate da nuovi slogan o nuovi proclami. Secondo un recente studio condotto su sette Paesi tra cui l’Italia, ricorda Giansante, il 72,5% dei politici non ha ancora realmente fatto il passo “social”.
Marketing elettorale sul web
«Quando nel 2014 feci le Europee per Forza Italia - racconta Gian Luca Comandini, docente di Web & Social Media Marketing all’Università La Sapienza di Roma e partner di Hdrà, con al suo attivo di consulente campagne per diversi candidati politici – quasi nessun altro utilizzava social e big data per fini politici. Poi dopo l’esplosione Grillo, tutti si sono svegliati e ogni partito ha iniziato la sua corsa verso i dati. Il secondo è stato Salvini,
che ha captato gli argomenti piu cari agli italiani (per esempio l’immigrazione) e ha usato tantissimo i social per fare campagne geolocalizzate solo su quegli argomenti (nelle regioni che soffrivano l’immigrazione faceva campagne contro l’immigrazione, nelle regioni con la mafia campagne contro la mafia, e cosi via».
Cinque stelle, nativi digitali
Per i politologi il M5S resta un unicum, un caso per molti versi irripetibile in altri contesti politici. Syriza, Podemos, che gli assomigliano, non hanno con la Rete il rapporto un po’ esoterico (alla Casaleggio) che hanno i grillini, dice Mazzoleni. Anche se «la comunicazione qui è gestita e controllata al centro, da una specie di “grande fratello”, che dà la linea e la corregge quando devìa. La Rete, così osannata da loro, paradossalmente è one-way».
La classifica dei leader “social”
Su Facebook, riferisce Vincenzo Cosenza dell’osservatorio Blogmeter - che raccoglie ogni mese oltre 2 milioni di conversazioni sul web relativi ai politici italiani - il leader con più fan è comunque Beppe Grillo che sta per sfondare la quota dei 2 milioni, seguito da Salvini (1,7 milioni). Ma il politico che riesce a stimolare più interazioni (somma di like, commenti,
condivisioni, post dei fan in bacheca) è Salvini che, ad esempio, nel mese di dicembre ne ha stimolate oltre 4,2 milioni, seguito da Di Battista con 2 milioni e Renzi con 1,9 milioni (Grillo si ferma a 1,4 milioni).
Caccia all’elettore sul web
L’universo dei big data raccolti su internet ha aperto spazi vasti e inquietanti per la “profilazione” degli utenti e degli elettori. Attraverso l’incrocio di sondaggi sui social con dati personali pubblici o acquistabili a pagamento (in Usa), e applicando la psicometria (che misura le caratteristiche psicologiche di un individuo), un gigante dei big data come Cambridge Analytica (si veda l’intervista sotto) è in grado di offrire una sorta di “motore di ricerca di persone”: capace di individuare, per esempio, tutti gli elettori democratici indecisi. Che possono diventare bersaglio di una comunicazione politica “su misura”. È il microtargeting, fondato sulla misurazione della personalità degli elettori in base alle loro tracce digitali.
Limiti e potenza della Rete
Certo, in Italia la televisione, come sottolinea Mazzoleni, è ancora the main source per l’informazione politica. La Rete è il luogo dove ognuno esprime la sua opinione, in modo caotico, irresponsabile (cioè non ne deve rispondere, quindi uno dice qualsiasi cosa e qualsiasi bestialità e spara giudizi e sentenze, quando non insulti). Ci si chiede però se, grazie alla loro interattività, i social media non siano anche l’agorà virtuale dove gli elettori cambiano opinione più facilmente che non con i vecchi media unidirezionali. In parte sì, almeno negli Stati Uniti. Secondo una ricerca del Pew Research Center di Washington, nel complesso, il 20% degli utenti di social media afferma di aver modificato la sua posizione su un tema politico o sociale a causa di materiale visto sui social, e il 17% afferma che i social hanno contribuito a cambiare la loro opinione su uno specifico candidato politico. Al tempo stesso, le ricerche Usa colgono anche fenomeni di “rigetto”: crescono gli elettori frustrati e insoddisfatti dal tono litigioso e insultante del dibattito politico sulle piattaforme social.
Il lato oscuro del web marketing
«La tecnologia non è né buona, né cattiva, né neutr», recita la prima legge della tecnologia dello storico americano Melvin Kranzberg (1986). Alla quale non sfugge neppure il marketing politico sui social. Che possono offrire agorà virtuali per confrontarsi, ma anche potenti strumenti per moltiplicare le fake news, le notizie false, la famigerata “post verità”, e per sostituire con automi informatici i supporter politici in carne e ossa, drogando i numeri del consenso politico. Il problema si intreccia con quello dell’hacking a scopo politico, riportato alla ribalta proprio in questi giorni dalla nuova cyberwar russo-americana.
Robot politici
I Bot, programmi che vengono usati per rispondere su internet anche ai consumatori, prima che intervengano i call center umani, in politica drogano il dibattito sui social network, gonfiano i consensi, rilanciano fake news con una potenza di fuoco di oltre mille tweet all’ora. Uno studio pubblicato sulla Technology Review dell’Mit rivela che quasi il 20% di tutti i post su Twitter collegati alle elezioni nell’ultima campagna Usa è arrivato da robot concepiti per influenzare le opinioni.
Notize fasulle , “like” a pagamento
Agli albori, in Italia, ci sono stati account twitter e facebook gestiti malissimo, pieni di insulti, di fake e di like a pagamento (ci sono società compiacenti che alimentano questo mercato). Pagine (per fortuna?) inutili perché, spiega Comandini, più si usano fake e bot e più l’algoritmo di Facebook abbatte la visibilità organica dei contenuti postati. Ma fra gli addetti ai lavori sono noti diversi casi in cui si sono combinate notizie fasulle e tecniche di hackeraggio per ottenere contemporaneamente quattro vantaggi: danneggiare la reputazione degli avversari politici, gonfiare con falsi like i consensi, accreditare siti di informazione scadente o falsa e moltiplicare gli introiti pubblicitari legati ai click. Il metodo spesso utilizzato combina diverse tecniche: il clickbaiting, che consiste nel creare titoli e anteprime di notizia totalmente false o facilmente confondibili che però attirano molto e inducono istintivamente a condividere subito la notizia senza neanche leggerla; e il likejacking o clickjacking, una tecnica hacker attraverso cui, ad esempio, mentre stiamo navigando normalmente sul web ci appare uno dei classici pop-up pubblicitari, noi clicchiamo sulla X per chiudere la finestrella mentre in realtà stiamo mettendo un like su una pagina facebook o cliccando su un sito che in realtà non abbiamo mai visto.
Ritorno alla partecipazione
Nell’età della disaffezione politica, è però opinione condivisa che la faccia sorridente della Rete autorizzi un certo ottimismo sulla sua capacità di favorire la partecipazione. «Quando non c’era Internet – sottolinea Mazzoleni – si lamentava che i cittadini non avevano sufficiente “accesso” alle informazioni e quindi scarsa familiarità con la politica. Oggi questo accesso esiste, Anche se Internet di per sé non garantisce una maggiore partecipazione. È il livello di educazione politica che conta e questa viene sviluppata (purtroppo pochissimo) in altre sedi, nella scuola, nella società civile, nell’associazionismo».
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