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Emotional connection o disconnection? Il segreto della Great Resignation

Spesso serve - ai giovani, ma anche ai meno giovani - un po’ più di pazienza per capire la poesia di un’impresa: lasciarla precocemente è solo prosa

di Emanuele Castellani *

(monamis - Fotolia)

3' di lettura

Si parla molto di Great Resignation, ma preferirei ragionare di Great Reshuffle. Perché? Perché vi è un elemento in comune con la Responsabilità Sociale d’Impresa e la Formazione continua su cui è possibile riflettere. Parto dal campo di esperienza di Cegos. La formazione continua - su soft o hard skill - è l’indispensabile fattore di competitività per aziende e lavoratori. Per le imprese rappresenta l’elemento preferenziale di sostegno alla produttività e l’unica alternativa al predominio evolutivo dell’Intelligenza Artificiale, per le persone la sola possibilità di continuare a contribuire in maniera distintiva alla creazione di valore in azienda e al contempo di salvaguardare la propria employability.

Non deve stupire se, intesa come la possibilità di accedere con costanza a percorsi formativi efficaci, è considerata dai vertici aziendali la leva più efficace per combattere lo skill shortage e dalle persone uno dei principali criteri di selezione per scegliere di entrare o rimanere in un’azienda.

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Stiamo già tratteggiando i confini della connessione emotiva, l’elemento che distingue i concetti di “Great Resignation” e “Great Reshuffle”, ovvero dimissioni volontarie nude e crude vs tutto ciò che incarna, invece, la volontà delle persone di trovare un lavoro che preservi il loro benessere, andando a migliorare il work-life balance, e che sia più allineato ai propri valori. In pratica una dimensione di worklife integration.

La connessione emotiva è quell’elemento che accende i riflettori sul fatto che la Great Resignation si scatena dove tale connessione si spegne, mentre il Great Reshuffle si rileva laddove essa si accende. Il rimescolamento organizzativo, per effetto della job rotation e somma algebrica tra entrati e usciti da un contesto lavorativo, è il risultato della costante ricerca di connessione emotiva.

La vera domanda, dunque, è: “Un’azienda può riuscire a influenzare il livello di connessione emotiva tra sé e i suoi dipendenti?” Sì, anzi, dovrebbe essere uno degli obiettivi prioritari. Fattori come la cultura aziendale, la comunicazione interna, la formazione e la condivisione di best practice - tutto ciò che dà una connotazione “romantica” all'azienda - possono influire tanto quanto la retribuzione, l’orario, i carichi di lavoro - che viceversa hanno un impatto diretto sulla vita delle persone -, anche se i primi sono più impalpabili e i secondi, invece, più quantitativi, misurabili e confrontabili.

È un po' come la differenza tra poesia e prosa, due generi su cui però si può lavorare, domandandosi appunto: “Quale qualità di vita complessiva offro?”. La formazione continua - quasi preferisco dire la continuità della formazione - è un fattore trasversale ai due schieramenti, così come la Responsabilità Sociale d’Impresa. Entrambi concorrono a caratterizzare e sostenere l’identità aziendale: “Chi siamo?”. Tracciarla consente inclusività e allo stesso tempo esclusività.

Per essere certi di includere non bisogna aver paura di escludere. Può suonare male oggi, in virtù della crescente importanza dell’inclusività, ma non si può essere davvero inclusivi senza essere esclusivi, pena l’offuscamento dell’identità aziendale. La sfida più importante per un’azienda, in chiave di connessione emotiva, è proprio quella di saper definire in maniera inequivocabile i fattori della propria identità - dal livello di autonomia all’approccio al feedback, dal senso di ownership collettivo o individuale, al livello di competizione-, diventando sicuramente molto attrattiva per coloro che ritengono di poter condividere alcune caratteristiche e poco o per nulla interessante per chi preferisce ambienti differenti.

Ecco l’esclusività, complementare all’inclusività. La Responsabilità Sociale d’Impresa rende poi esplicito il contributo che un’azienda può e decide di dare all'evoluzione della specie. Così facendo comunica e come tale potrebbe anche rientrare all’interno della funzione e della strategia di marketing, essendo determinante nel caratterizzare l’identità aziendale.

Un’ultima riflessione riguarda il regret post dimissioni cui si sta spesso assistendo - il dispiacere con cui si guarda al passato -, fenomeno differente dal rethinking in cui può sfociare, quando si concretizza nel ritorno all’origine. Non sempre, soprattutto i giovani, riescono a focalizzare o fare un’analisi adeguatamente profonda prima di decidere di lasciare un’azienda e intraprendere una nuova sfida.

Un’impresa incline al cambiamento però è un’azienda che sa ascoltare e offrire possibilità di espressione alle nuove generazioni, come meritano; a loro volta dovrebbero tuttavia affiancare all’azione anche capacità d’ascolto e di apprendimento, concedendosi i giusti tempi e valutando le modalità più opportune prima di cambiare. In una parola spesso serve - ai giovani, ma anche ai meno giovani - un po’ più di pazienza per capire la poesia di un’impresa. Lasciarla precocemente è solo prosa, anzi cronaca di un fatto che né le aziende, né i loro dipendenti vogliono o si possono permettere.

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