Emozioni spaziali
di Harry Francis Mallgrave
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Alcuni anni fa, in un laboratorio dell’École Polytechnique Fédérale di Losanna (EPFL), alcuni ricercatori condussero un esperimento in cui fu chiesto ai partecipanti di stare in piedi in mezzo a due pareti mobili e di indossare dei visori nei quali osservavano le immagini delle loro schiene sfiorate da una piccola asta, mentre venivano simultaneamente filmati da dietro. Coloro che avevano partecipato a esperimenti precedenti tipicamente avvertivano la loro collocazione dello spazio come spostata in avanti in direzione dei loro corpi virtuali proiettati di fronte a loro; ma, nel momento in cui le pareti laterali venivano avvicinate al corpo, alcuni soggetti avvertivano un’altra sensazione, quella di essere toccati dalle pareti. Com’è possibile che una percezione visiva dello spazio possa produrre una sensazione tattile?
Questo esperimento, condotto da Isabella Pasqualini e Olaf Blanke, toccava una questione sollevata per la prima volta quasi 150 anni fa. Nel 1873 Robert Vischer pubblicò una dissertazione intitolata «On the Optical Feeling of Form», nella quale, facendo uso di concetti freschi di psicologia fisiologica, avanzò l’idea che affrontiamo artisticamente il mondo non solo con il senso della vista, ma con un più profondo insieme di sensazioni corporee, la principale delle quali era l’Einfühlung, ovvero una sensazione sensomotoria “interna” creata dalle forme visive. Trent’anni dopo la pubblicazione di questo trattatello, lo storico dell’arte Heinrich Wolfflin pubblicò un saggio sulla risposta emotiva indotta dagli edifici, nel quale, criticando il lavoro di Vischer, ipotizzò che i dettagli di un edificio inducono l’Einfühlung a causa dei loro effetti neurali e vestibolari sugli organi interni del nostro corpo. La sua linea di ragionamento era che, poiché abbiamo dei corpi e conosciamo le forze di gravità, siamo capaci di comprendere la pesantezza, l’equilibrio e la compattezza delle forme architettoniche.
L’idea di Einfühlung figurava significativamente nel circolo toscano di Bernard Berenson all’incirca al volgere del secolo. Lo storico dell’arte, nel suo Florentine Painters of the Renaissance (1896), aveva dato voce ai loro “valori tattili”, cioè alle sensazioni che proviamo nell’osservare i muscoli e i movimenti delle figure. Lo scrittore inglese Vernon Lee, vicino al suo circolo a I Tatti, tentò addirittura di monitorare i cambiamenti fisiologici di qualcuno che stesse osservando la facciata della Chiesa di Santa Maria Novella di Leon Battista Alberti. L’idea di Einfühlung, presto tradotta in inglese con “empatia”, era diffusa nella letteratura artistica europea nella prima decade del Ventesimo secolo, ma questa linea di pensiero si interruppe improvvisamente con l’inizio della Prima Guerra Mondiale.
Il concetto di empatia artistica sarebbe rimasto una nota a piè di pagina nella storia se non fosse stato per una serie di esperimenti condotti in un laboratorio dell’Università di Parma negli anni ’90. Un team guidato da Giacomo Rizzolatti stava inserendo degli elettrodi nei cervelli delle scimmie, quando si imbatté nell’attività di due gruppi correlati di neuroni nelle regioni sensomotorie del cervello. Un gruppo, che chiamarono “neuroni canonici”, si attivava quando le scimmie osservavano oggetti che richiedevano azioni motorie specifiche, come i movimenti delle dita necessari per afferrare un oggetto. Un altro gruppo di neuroni si attivava invece quando le scimmie semplicemente osservavano altre scimmie eseguire azioni con uno scopo. Chiamarono questo gruppo di neuroni con l’espressione “neuroni specchio” e i modelli successivi di “simulazione incorporata” ci dicono adesso che è attraverso questa attività neurale che simuliamo i valori dello spazio, delle forme, dei materiali e delle qualità tattili dell’ambiente con cui siamo in contatto, così come le emozioni degli altri.
In che modo la simulazione incorporata si applica allo spazio architettonico? Già nel 1893, lo storico dell’arte tedesco August Schmarsow sottolineò che la percezione spaziale è costruita attraverso «i residui dell’esperienza sensoriale alla quale contribuiscono le sensazioni muscolari del nostro corpo, la sensibilità della pelle e la struttura del corpo». Impariamo dalla nostra stessa esperienza che quando entriamo in uno spazio vasto, come una cattedrale gotica o il Pantheon romano, il nostro corpo cambia. Stiamo in posizione eretta, solleviamo le nostre teste verso l’alto e respiriamo più profondamente. Di converso, quando camminiamo in un corridoio basso e stretto, ripieghiamo il corpo verso il basso, ci accovacciamo e camminiamo velocemente.
Anche Maurice Merleau-Ponty è intervenuto sul tema della nostra relazione corporea con lo spazio. Una donna che indossa un cappello con una piuma sa come mantenere la distanza di sicurezza da qualcosa che potrebbe danneggiarlo, e un giocatore di tennis sa che la sua area di opportunità spaziali è estesa dalla racchetta.
Rizzolatti, in un saggio del 1997, sottolineò la distinzione tra spazio peripersonale ed extrapersonale. Il primo spazio è quello immediatamente intorno ai nostri corpi che sembra essere regolato da due reti neurali distinte, collocate nella corteccia premotoria e nel lobo parietale. Una funziona come zona di attività collegata con il nostro accedere a oggetti e persone; l’altra funziona invece come una zona di difesa per il corpo. Lo spazio peripersonale implica sempre un’attività intelligente del corpo, l’innesco dei nostri arti verso l’azione e la definizione di un confine di sicurezza. Se vedo un paio di occhiali da vista sul mio tavolo, per esempio, simulo l’attività muscolare del prenderli e indossarli anche se non ho nessuna intenzione di farlo. Occhiali posti invece al di fuori della mia portata perdono il loro significato per l’azione.
Lo spazio peripersonale è anche altamente duttile in relazione alla sua estensione. Camminare estende il confine in avanti, e il condizionamento culturale può anche modificare la profondità dello spazio di difesa. In termini architettonici, posso sempre tenermi alla larga dall’angolo sporgente di un tavolino da caffè, o dalla ruvidità di una parete, se pone una minaccia per me. Se l’oggetto o il materiale viene spostato nello spazio extrapersonale, viene invece percepito in maniera differente. Vari studi negli anni hanno dimostrato che generalmente preferiamo spazi interni che siano ben illuminati e modificabili, che ci offrano quindi diverse possibilità di movimento e di fuoriuscita. In un esperimento condotto personalmente, Oshin Vartanian concluse che generalmente troviamo gli spazi curvilinei, o quelli con pareti alte, più belli di quelli rettilinei, e tutto questo ci dice che percepiamo lo spazio architettonico non in termini neutri, ma come un’entità plastica, dinamica e relativa al nostro corpo.
L’empatia dello spazio architettonico assume una seconda caratteristica nel contesto dei sistemi specchio e nei modelli di simulazione incorporata. Vittorio Gallese e David Freedberg hanno collaborato a diversi esperimenti che dimostrano che nella percezione dell’arte e dell’architettura simuliamo non solo i movimenti (i valori tattili di Berenson), ma anche emozioni e sensazioni: l’agonia di Laocoonte che combatte per salvare suo figlio, la forza dei colpi di pennello sulla tela, oppure i segni del cesello su un blocco grezzo di pietra. Questo sembrerebbe confermare la nozione di Schmarsow di Raumgefuhl (“sentimento dello spazio”), ma anche il fatto che leggiamo le forme architettoniche come una composizione spaziale di valori lineari e materiali, come Arthur Schopenhauer aveva proposto quasi due secoli fa. E in effetti uno studio con Imaging a risonanza magnetica (MRI) condotto da Sjoerd Ebisch nel 2008 ha rilevato che i nostri meccanismi specchio si attivano quando semplicemente osserviamo due oggetti inanimati che si toccano l’un l’altro.
Questa ipotesi ha molte implicazioni per il design, non ultima la tattilità o la ricercatezza nelle forme, nei dettagli e nelle loro articolazioni (la nozione di concinnitas di Alberti). Roger Scruton una volta ha messo a contrasto la ricchezza articolata di una navata gotica verticale con la «l’avvilente mancanza di umanità di un grattacielo moderno», che non possiede una simile portata/scala e simili dettagli. Pensiamo a questa mancanza di umanità su scala urbana. Se dovessi chiedere a una persona che percorre a piedi i vicoli di Siena di definire le sue qualità spaziali, probabilmente loderebbe proprio la dimensione della città e dei suoi spazi. Confrontiamo questa esperienza con i marciapiedi di cemento affollati e le strade piene di torri di vetro delle moderne metropoli, dal quartiere di Pudong a Shanghai, a Duha a Dubai, a Manhattan, e avremo un’esperienza che a pochi sembrerà attraente. Da qualche parte nei nostri salti fuori scala sembriamo aver perso l’idea empatica di uno spazio umano, ed è ora che gli architetti concepiscano il progetto meno attraverso le lenti degli oggetti estetici e più come un’esperienza umana.
Traduzione di Patrizia Pedrini
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