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Empatia, un viaggio verso l’altro con non pochi rischi

Il rischio di contagio emotivo avviene in maniera molto più subdola di quello che potrebbe sembrare

di Gianluca Rizzi *

4' di lettura

In una delle, ora più frequenti, occasioni di formazione aziendale in aula dal vivo, mi è capitato di tornare a proporre e discutere (vestendo i panni del formatore) la questione dell’empatia. E si tratta sì di una vera e propria “questione”, nella misura in cui è attualmente una di quelle cosiddette buzzword, ovvero una parola in auge. E lo è in particolar modo nella bolla mediatica del network di esperti di leadership, coach e formatori nella quale navigo anche io.

Peraltro, un recente fatto di cronaca ovvero un signore caduto in un fiume e salvato da due ragazzi che si sono tuffati mentre altri passanti osservavano la scena tramite le telecamere dei propri smartphone, apparentemente, ha messo in evidenza in maniera lampante cosa significhi averne e non averne affatto.

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Di fronte a un altro essere umano che dovesse trovarsi in una condizione di disagio (sia materiale che emotivo), tutti dovremmo sentirci pronti a dare il nostro sostegno, in virtù dell’umana propensione all’immedesimazione, capace di farci comprendere lo stato di disagio altrui. E ci sembra assurdo che alcuni altri esseri umani possano restare insensibili e immobili.

Empatia e moralismo

Questa interpretazione dell’empatia si porta dietro una chiave di lettura per certi versi moralistica, nella quale in linea di principio sarebbe possibile distinguere il giusto dallo sbagliato sulla base di alcuni criteri convenzionalmente condivisi. E spesso è proprio l’empatia che genera alcune nostre reazioni anche di fronte a fatti che accadono lontano da noi e questo ci potrebbe spingere ad assumere delle posizioni moralmente ineccepibili ma razionalmente discutibili.

Eppure, c’è un libro intitolato “Contro l’empatia. Una difesa della razionalità” scritto da uno psicologo che insegna a Yale, Paul Bloom, che sembrerebbe assumere una posizione del tutto diversa e aggiungere una chiave di lettura nuova e interessante. Uno degli esempi dirimenti citati da Bloom è quello di Churchill. Durante la Seconda guerra mondiale gli inglesi avevano scoperto come decodificare il codice Enigma dei nazisti e quindi erano al corrente dell’attacco alla città di Coventry che si sarebbe verificato di lì a poco. Che cosa avrebbe dovuto fare Churchill? Salvare la città sulla base dell’empatia, ma svelare di avere decriptato il codice, oppure sacrificare la città, conservando il vantaggio militare per vincere la guerra e salvare così anche un numero maggiore di vite? Gli inglesi optarono per la seconda terribile alternativa.

Un percorso faticoso

Questo esempio, seppur in qualche modo estremo, mostra però in maniera emblematica il rischio del dilemma morale. Ma se spostiamo la questione sul piano più strettamente quotidiano delle nostre relazioni personali e professionali, ci rendiamo conto della fatica che genera in noi l’avere a che fare con il disagio altrui e di come l’empatia possa divenire un formidabile “strumento diagnostico” utile per comprendere il “dolore” altrui senza lasciarsene contagiare, con l’obiettivo di restare lucidi e razionali e quindi capaci di essere davvero d’aiuto.

L’empatia può essere paragonata a un viaggio presso l’altro, un viaggio idealmente di due sole tappe e, soprattutto, di andata e ritorno. Rischia spesso e volentieri di divenire un viaggio di sola andata e di ben quattro tappe. In una qualunque situazione relazionale, possiamo dirci capaci di ascolto autentico e inclusivo quando, tra le altre cose, riusciamo a immedesimarci nell’altro e ad assumermene la prospettiva (prima tappa) per immaginare (seconda tappa) cosa l’altro veda, provi e pensi dal proprio punto di vista. Raccolto questo prezioso materiale emotivo e cognitivo, ci tocca tornare in noi per prenderci a quel punto cura dell’altro, forti di quanto appreso rispetto alla sua condizione.

Ahimè, molto spesso l’entrare in contatto con la condizione altrui, soprattutto se di disagio, genera il cosiddetto “contagio emotivo”, ovvero quella circostanza nella quale cominciamo a provare profondamente quello che l’altro sente (terza tappa) e a entrare in una situazione di “dolore” (ultima tappa senza ritorno).

Giunti in questa landa estrema, desolata e dolorosa, noi avremo un solo obiettivo: far cessare il dolore altrui affinché cessi il nostro dolore. Reagiremo con la fuga, la manipolazione oppure l’aggressività. In altri termini, egoisticamente annulleremo l’altro col solo e comprensibilmente umano obiettivo di tutelare noi stessi. Certamente non saremo in grado di aiutare l’altro.

Ora, raccontata così sembra facile, nel senso che usare l’empatia come strumento per restare razionali e davvero capaci di supporto verso gli altri sembra un gioco da ragazzi. Eppure non lo è, nella misura in cui quello che abbiamo chiamato contagio emotivo avviene in maniera molto più subdola di quello che potrebbe sembrare. E ci ritroviamo a scappare dalle relazioni oppure a manipolarle, oppure ancora ad essere aggressivi.

D’altra parte, sapere di avere questo strumento a disposizione può essere di grande conforto e valore da una parte e conoscerne il potenziale e anche i rischi ci può indurre a farne un uso più consapevole. Un ingrediente fondamentale resta il tempo. Occorrono tempo e pazienza per avvicinarsi all’altro e compiere quel viaggio tutt’altro che semplice.

*Partner di Newton S.p.A.

Riproduzione riservata ©

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