Enrico Marchi, il capitalismo italiano osservato con lo sguardo radicato a Nordest
Dalla finestra della foresteria della Finint, il banchiere e imprenditore ripercorre la sua carriera e valuta le scelte che agitano il suo territorio e il sistema Italia
di Paolo Bricco
6' di lettura
«Lo dico anche se possiedo un preciso senso del limite. La mia fonte di ispirazione è sempre stato Warren Buffet. Lui non lavora a New York. Vive a Omaha in Nebraska e, da lì, investe in tutti gli Stati Uniti e in tutto il mondo con la sua holding Berkshire Hathaway. Io amo tantissimo Conegliano. Appartengo al Veneto e al Nordest. Aveva ragione il Gran Borghese, Bruno Visentini, quando diceva che in fondo siamo tutti veneziani di terra ferma. Dopo il liceo, ho frequentato la Bocconi a Milano. I miei compagni sognavano Londra e New York. Io, dopo le lezioni, desideravo solo tornare a casa. Ho capito subito che, come ha scritto qualcuno, avrei sempre voluto abitare i luoghi a cui appartiene il mio cuore. Del Nordest riconosco vizi, difetti e limiti. Ma, da qui, non andrei mai via. E, poi, stare lontano da Milano e da Roma aiuta. Sei tranquillo. Conservi uno sguardo sereno. La parte emotiva, irrazionale e conformista della finanza e dell’impresa viene mitigata dalla distanza fisica».
Enrico Marchi – banchiere e imprenditore, classe 1956 – è nella foresteria della sua Finint. Dalla sala da pranzo, attraverso un’ampia vetrata, si vede in lontananza la collina su cui sorge la villa dove abita, nella Marca Trevigiana.
Come antipasti, vengono servite una crema di fagioli con capesante arrostite e pancetta e una tartare di fassona all’uovo e spinacino.
Marchi incarna bene e ricompone a unità le contraddizioni del Nordest, arrotondandone gli eccessi: manifesta la vitalità che però non tracima in spacconeria, esprime la solitudine di una comunità povera diventata benestante nel lampo di sessant’anni ma senza attorcigliarsi nel compiacimento e ha il pragmatismo autoironico delle Gens Veneta che trasforma la voglia di fare, di fare e di fare ancora in un senso del possesso della vita rapido e divertito.
In più Marchi ha una dose di distacco da quello che accade nei grandi teatri italiani che, espressa a Conegliano, è ancora più significativa, mentre il potere del nostro Paese – fra Roma e Milano – ascolta il silenzio successivo alla fine della guerra intorno a Mediobanca, con l’assalto dato da Francesco Gaetano Caltagirone e da Francesco Milleri al fortilizio di Alberto Nagel, che ha resistito: «Quando mi chiedono dove mi colloco, rispondo sempre che mi colloco a Conegliano. Se non si può dire che ci cerchino tutti, si può dire che noi lavoriamo e parliamo con tutti. Esiste una dimensione naturale del conflitto. La vita e l’economia sono queste. Ma io non ho mai dato le carte. E, a sessantasette anni, sono troppo vecchio per arrivare a farlo».
La batteria di vini che si sussegue sulla tavola è notevole: il prosecco di Collalto, il Garganega Torre del Falasco e, come rosso, un Corvina
. Marchi è una sorta di catalizzatore e di riorganizzatore delle energie del Nordest. Cerca di costruire cattedrali, rispettando i campanili ma senza rimanerne vincolato e, anzi, provando a superarli.
Lo ha fatto – lo fa – con la finanza, dove adesso la sua Finint opera come una banca d’affari nelle cartolarizzazioni («abbiamo firmato noi la prima in Italia nel 1991 con la Comit»), nell’asset management, nel private banking, nelle partecipazioni, nell’M&A («la prima operazione importante fu la vendita, da parte di una famiglia veneta in crisi di liquidità, della Tenuta Sant’Anna alla Genagricola, l’azienda guidata da Giuseppe Perissinotto, il padre di Giovanni, già amministratore delegato delle Assicurazioni Generali») e, in maniera residuale, nell’attività originaria dei finanziamenti («nel 1987 aprimmo a Milano una società al 50% con Apple per il leasing sui loro computer, il primo dipendente fu Diego Piacentini, che dieci anni dopo sarebbe diventato general manager di Apple in Europa e poi vice president di Amazon»).
Ci è riuscito con il sistema aeroportuale del Nordest imbastito sulla Save e sull’aeroporto Marco Polo di Venezia.
Ci sta provando – la parola è d’obbligo, vista la complessità e la capacità di bruciare ricchezza dei giornali tradizionali e digitali - con la cordata di diciotto imprenditori che, attraverso la Nord Est Multimedia, ha rilevato per poco meno di quaranta milioni di euro dalla Gedi della famiglia Agnelli-Elkann sei giornali locali (Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e Mestre, il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto, il Piccolo di Trieste, tanto agognato dallo stesso Caltagirone, e la testata online Nordest Economia), con il progetto di comporre una voce unica da dare a questo pezzo di Paese, che ha sempre avuto un peso specifico culturale e politico, informativo e civile inferiore rispetto al suo peso finanziario e soprattutto manifatturiero: «Io mi occupo di infrastrutture. Le banche, gli aeroporti e i giornali sono infrastrutture. Il Nordest, che produce il 15% del Pil nazionale, ha sempre avuto difficoltà a incidere sulle grandi tendenze del Paese», riflette ricordando la storica minorità di questa parte dell’Italia che non è solo una espressione geografica, ma che è ampia, solida e identitaria, benché poco rappresentata e – non di rado – ancora meno considerata.
Il pranzo procede spedito. Come piatto principale vengono serviti una spalla di manzo cotto a bassa temperatura con indivia brasata e tonno “tonnato” con peperoni spadellati e capperi croccanti
. Marchi costruisce – con la sua biografia e la sua attività imprenditoriale – ponti fra il passato, il presente e il futuro di una comunità nella sua interezza.
«Mio papà Giovanni era un agente della Lanerossi e vendeva lana agli Stefanel e ai Benetton, dei quali è diventato amico. Era un uomo corretto e, a volte, severo. Quando, da ragazzo, ebbi problemi con un socio nella mia prima azienda, al momento della sua liquidazione, mio padre mi suggerì di pagare le quote non poco, come avrei voluto io, ma il giusto e, poi, al momento dell’atto, prima di firmare, nell’ufficio del notaio, impose alla controparte di restituire una calcolatrice elettronica che si era portata via e di saldare un pranzo di Pasqua che aveva impropriamente addebitato all’azienda. Mia mamma Maria Luigia era una maestra elementare. Ogni sera, in casa nostra, il telegiornale andava ascoltato in silenzio e, tutte le mattine, si leggevano Il Corriere della Sera e il Giornale Nuovo di Indro Montanelli. Come tanti di allora, nella mia famiglia si percepiva una diffidenza verso la politica, ritenuta una cosa sporca e compromissoria, da lasciare fare agli altri. Su questo non sono mai stato d’accordo. L’atteggiamento verso la cosa pubblica della borghesia del Nord ha originato tanti mali del nostro Paese».
Nella vita di Marchi la quintessenza di un Veneto non provinciale, ma popolarmente nobile, è rappresentata anche dalle origini della famiglia della moglie Emanuela Seguso, il cui nonno Archimede è stato uno dei vetrai dell’isola di Murano che hanno rotto la barriera dell’artigianato per arrivare alla dimensione dell’arte e dell’estetica più raffinate: meravigliosi i suoi prodotti per Tiffany. «Io e mia moglie abbiamo avuto Margherita, Giovanni, Virginia e Benedetta. Aveva ragione il mio amato Guido Piovene nel suo “Romanzo americano”, uscito postumo: “Alla felicità di un uomo occorrono un amore riuscito e un lavoro che piace”».
In tavola, come dessert, viene servita della macedonia di frutta con gelato alla vaniglia. Il Nord-Est è, con la Sicilia, uno dei grandi enigmi del nostro Paese.
Perché, qui, c’è – e c’è stato – troppo di tutto. Troppa grandezza e troppa miseria, troppa ricchezza e troppa povertà, troppo potere e troppa debolezza, troppa identità e troppa contaminazione, troppa centralità nella storia e poi troppa marginalità, troppa dipendenza dalla politica e troppa alienazione da essa.
«In questo momento storico – riflette Marchi – esiste una doppia dinamica che rende il Nordest centrale nella vita del Paese. La prima dinamica è quella di una minore estraniazione della nostra terra, con i nostri talenti e i nostri interessi, dagli equilibri nazionali. Senza protagonismi, dobbiamo essere più protagonisti. La seconda è quella della nostra interpretazione del ruolo dell’imprenditore che oggi, in tutto l’Occidente, ha una centralità culturale e civile ancora maggiore rispetto a un tempo. Esiste una frammentazione della società e una perdita di senso con cui l’imprenditore può misurarsi. Il Nordest ha espresso industriali segnati da forza e complessità. Penso sempre a un grande banchiere imprenditore come Silvano Pontello. E, ancora prima, a Giuseppe Volpi, presidente della Biennale e primo riferimento della Mostra del cinema, e a una personalità fuori dall’ordinario come Vittorio Cini. Oggi la crisi finanziaria è devastante. La recessione economica è dura. Il disorientamento politico e culturale è significativo».
E, mentre beviamo il caffè, le sue parole mi ricordano le pagine di un vecchio libro einaudiano di Guido Ceronetti, il suo personale Viaggio in Italia compiuto fra il 1981 e il 1983, sul Veneto «morbidamente cattolico, questo cuneo di ferro di un’anomala religione di Spartani d’epoca industriale – ospite strano, inassimilato».
La fine di questa stranezza e in fondo di questa alterità del Nordest – a cui si sta dedicando Marchi, imprenditore di Conegliano, del Veneto, dell’Italia – non può che supportare il passo, oggi malfermo e claudicante, di tutto il Paese.
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