Epidemia e under 30: carriera “a rischio” per colpa dello smart working?
Il 34% dei più giovani vede incrinata la possibilità di fare carriera, il 44% elegge a priorità la certezza della continuità professionale.
di Gianni Rusconi
3' di lettura
Gli studi che provano a delineare gli effetti provocati dal lavoro a distanza sulle dinamiche organizzative delle grandi aziende ormai si sprecano. Molto meno numerose, invece, sono le ricerche che indagano sulle ripercussioni dello smart working prolungato (e della prospettiva di continuare a svolgere la propria professione in modalità remota) tra gli addetti delle piccole e medie imprese. Un’indagine condotta da Censuswide per Sharp su oltre 6mila impiegati di otto Paesi europei (Italia compresa) evidenzia per l’appunto le conseguenze generate dalla pandemia di Covid-19 sulle esigenze di chi opera nelle Pmi e le loro aspettative future, delineando un quadro decisamente poco incoraggiante circa le aspirazioni di carriera dei “nativi digitali.
Ansia e incertezza, si legge nella nota che accompagna lo studio, sono sensazioni molto comuni per questa classe di lavoratori e fra gli aspetti che provocano maggiore preoccupazione vi sono la stabilità economica generale, la difficoltà nel mantenere aggiornate le proprie competenze e la mancanza di formazione e di opportunità di carriera. Per gli under 30, in particolare, è l’ultima voce a destare maggiore preoccupazione, perché l’attuale situazione può mettere rischio la loro crescita professionale.
Veniamo a qualche numero relativo al campione italiano. Per il 48,7% degli intervistati in testa alle priorità professionali di questa fase c’è la certezza della continuità lavorativa, seguita dalla possibilità di usufruire di strumenti tecnologici adeguati per lavorare in smart working (voce citata nel 46% dei casi). Con il cambiamento dei modelli organizzativi, come attesta la ricerca, sembra essere mutato anche il rapporto rispetto al datore di lavoro: per una buona fetta di addetti (circa il 42%), ciò che oggi viene maggiormente apprezzato è il trattamento loro riservato dal datore di lavoro, mentre una porzione quasi paritaria di lavoratori (il 41%) considera essenziale il supporto fisico e psicologico dei dipendenti.
Poco meno del 46% degli intervistati italiani, rispetto a questo ultimo punto, dichiara inoltre che il benessere dei remote worker dipende essenzialmente dalla possibilità di avere orari flessibili, mentre per il 44% è strettamente collegato all’apprendimento di nuove competenze tramite la formazione online e per il 36% sono i benefit di natura finanziaria (per esempio prestiti senza interessi) il fattore su cui puntare maggiormente.
Spicca, fra i tanti indicatori che concorrono a dipingere lo scenario prossimo venturo prospettato dai lavoratori delle Pmi, la percentuale relativa a chi opterebbe per il lavoro full time da remoto, che si ferma solo al 16,6% ed è praticamente dimezzata rispetto a quella (pari a oltre il 30%) di coloro che puntano sulla possibilità di bilanciare attività da casa e lavoro in sede.
Prendendo in esame il cluster dei lavoratori più giovani, la preoccupazione per ciò che sta succedendo e che potrebbe ancora manifestarsi nei mesi a venire si specchia in modo particolare nelle aspettative degli under 30: il 34% di loro vede incrinata la possibilità di fare carriera e la garanzia di un lavoro sicuro, il 44% elegge a priorità la certezza della continuità professionale. Nonostante le preoccupazioni per lo sviluppo del proprio percorso professionale, circa il 60% dei millennials impiegato nelle piccole e medie imprese è tuttavia d’accordo nel sostenere che lo smart working abbia migliorato la produttività e consenta di migliorare il “worklife balance”.
Gli under 30 europei, per avere un termine di paragone, riflettono sostanzialmente la percezione dei colleghi italiani: il 51% ritiene che il lavoro da remoto abbia impattato positivamente sulla produttività e il 63% vede nella tecnologia digitale lo strumento per svolgere il lavoro in modo più efficace.C’è però un rovescio della medaglia da non trascurare: il 56% di questa fascia di addetti è infatti dell’idea che con il lavoro da remoto sia più difficile rimanere informati su quanto accade in azienda e il 47% ritiene difficile mantenere il giusto livello di motivazione.
Molto significativa, in proposito, l’osservazione della psicologa Viola Kraus, secondo cui “la generazione dei nativi digitali non ha solo bisogno di ricevere le competenze per ottenere il meglio dalla tecnologia, ma anche di essere formata sulle competenze generali di business per progredire nel proprio lavoro. E il loro timore di rallentare il percorso di carriera rimanendo in smart working è dovuto della mancanza di collegamento e di indicazioni da parte del proprio team e dai colleghi senior”.
Come invertire questa pericolosa tendenza, mentre si continua a lavorare virtualmente? A detta dell'esperta la strada da seguire è già tracciata: fornire una guida e una piattaforma attraverso dove incoraggiare l’apprendimento tra pari livello, “facendo sembrare tutto naturale”.
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