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Essere multitasking rappresenta davvero un’evoluzione per l’essere umano?

Sempre più sp esso dedichiamo alle persone e alle cose di cui ci stiamo occupando una forma superficiale e frammentata di attenzione

di Gianluca Rizzi *

Il Premio Nobel per la Medicina 2022, Svane Paabo (Karsten Moebius / handout)

4' di lettura

Qualche giorno fa, durante una videocall, nelle battute iniziali, quelle solitamente dedicate ai “come stai” e “come va”, una persona mi ha detto di vedermi pensieroso. E gli ho risposto: “In realtà ero solo molto concentrato, come non mi capitava da tempo!”. Effettivamente durante le ore precedenti a quel momento, per qualche strana congiuntura astrale, avevo sperimentato una condizione di raccoglimento e una sensazione di concentrazione profonda su quanto stavo facendo che davvero mi ha sorpreso tanto per la piacevolezza quanto per la rarità con cui oramai si manifesta.

Sì, è vero, sembra diventato una specie di ritornello, di quelli buoni per le cosiddette chiacchiere da bar: “facciamo troppe cose insieme, fatichiamo a concentrarci, veniamo continuamente interrotti da telefonate, mail e notifiche, gli smartphone sono irresistibili con tutte le loro tentazioni, ecc.”. Siamo forse anche assuefatti a questo tipo di considerazioni perché le abbiamo pronunciate e sentite talmente tante volte da darle per scontate, ma questo di per sé ne constata la sostanziale verità oltreché importanza.

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In un libricino di poche pagine ma estremamente dense intitolato “La società della stanchezza”, il filosofo coreano Byung Chul Han, considerato tra i più interessanti e influenti dell’epoca contemporanea, riflette in senso più ampio sul valore terapeutico di un certo tipo di stanchezza. Nel libro approfondisce molti temi per sostenere la propria tesi e quello che in particolare mi ha colpito è il senso attualissimo di alcune considerazioni formulate ben 10 anni fa su una questione specifica: quella dell’attenzione.

Era il lontanissimo 2012 quando il libro veniva pubblicato e non eravamo ancora stati del tutto travolti dalla presenza quasi totalizzante dello smartphone nelle nostre esistenze. Sperimentavamo già un certo grado multitasking nelle nostre giornate (e non solo) ma nulla di paragonabile a quello che accade oggi. Eppure, già all’epoca Byung Chul Han sosteneva che la “tecnica del tempo e dell’attenzione detta multitasking” non fosse una novità bensì una modalità già ben nota nel regno animale nel quale il singolo esemplare è costretto, per ragioni evidenti di autotutela e sopravvivenza, a tenere un livello di attenzione superficiale ma ampio intorno a sé per sorvegliare la prole e rilevare i potenziali pericoli.

Byung Chul Han lo considerava quindi un regresso, un passo indietro nella misura in cui riportava l’essere umano allo stato di natura ovvero a una condizione orientata al sopravvivere più che al vivere. Quello che probabilmente sempre più spesso sperimentiamo è il fenomeno della “iper-attenzione”, secondo un’espressione usata proprio da Byung Chul Han, ovvero una forma superficiale e frammentata di attenzione che dedichiamo alle persone e alle cose di cui ci stiamo occupando.

Bisognerebbe forse cominciare a chiedersi con maggiore insistenza e perseveranza: quanto ne siamo davvero consapevoli? Da cosa ce ne accorgiamo? Quali costi ha questa condizione? Quali opportunità perdiamo? Soprattutto: è un processo inevitabile e irreversibile? Oppure abbiamo un margine per porre un rimedio? E in cosa consiste concretamente? Domande mi auguro utili per ingenerare un processo di auto-riflessione che certamente stiamo già tutti facendo, più o meno consapevolmente.

Nel frattempo, possiamo riportare queste considerazioni alla realtà quotidiana delle organizzazioni e a due temi cruciali per le aziende in questo momento storico ovvero persone e innovazioni, e notare come due “costi” nascosti dell’iper-attenzione appaiano subito evidenti. L’iper-attenzione impatta in modo fortemente negativo sulla nostra capacità di ascolto attivo ed empatico poiché quest’ultima richiede senso di presenza, concentrazione profonda, immersione nella realtà emotiva e cognitiva dell’altro.

L’ego iperattivo e iper-attento, come lo definisce Byung Chul Han, è incompatibile con l’ascolto profondo e consapevole. Senza ascolto semplicemente non sono possibili relazioni fiduciarie ovvero quelle costruttive e proficue. L’iper-attenzione impatta anche sull’innovazione (a tutti i livelli, dal singolo individuo all’intera organizzazione) nella misura in cui riduce sensibilmente la tolleranza per la noia e quest’ultima rappresenta uno dei presupposti fondamentali per il processo creativo.

In questo caso Byung Chul Han usa un’immagine semplice ma efficace: chi camminando s’annoia e non tollera in alcun modo questa sensazione tenderà a diventare irrequieto e individuare come unica via di fuga l’accelerazione, il passo veloce, la corsa. Chi invece sa tollerare la condizione della noia e riconosce di essere annoiato dall’unico movimento disponibile, ovvero il camminare, più facilmente sarà in grado di individuare un movimento diverso, un passo di danza che, fuor di metafora, rappresenta il nuovo, il diverso, l’inedito.

In altri termini, la frenesia e il multitasking che derivano dall’imperativo della velocità da una parte e dall’incapacità di riconoscere e tollerare la condizione di noia dall’altra non generano nulla di nuovo ma riproducono e accelerano ciò che è già disponibile. La pandemia e tutto quello che ne è derivato non hanno fatto altro che esasperare due fenomeni: compressione (dei tempi e delle emozioni) e frammentazione (delle attività e delle relazioni).

Occorre dilatare e ricomporre e per farlo serve sottrarsi, almeno in parte, a questo meccanismo dell’iper-attenzione che ci impedisce di metterci davvero in relazione con l’altro e alla ricerca del nuovo, due ingredienti fondamentali del nostro processo evolutivo.

* Partner di Newton S.p.A.


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