Videogiochi

Essere o non essere commerciali? Perché i videogiochi non saranno mai un prodotto borghese

di Luca Tremolada

Il comandante Zavala, il capo dei Titani della celebre serie di videogiochi «Destiny»

4' di lettura

Il rischio è sempre quello di vedere nei videogiochi più cose di quanto realisticamente possano esprimere. Ma succede lo stesso in tutte le forme d’arte. Chi pratica il videogioco sa benissimo che giocare spesso vuole dire vivere esperienze lunghe e complesse. Chi progetta e pensa i videogiochi sa che quella del gaming è una scrittura dove tutto può cambiare. Magari per l’ingresso di una nuova tecnologia come la realtà virtuale, che aggiunge nuove dimensioni di storytelling . Chi infine i videogiochi li studia sa che possono nascere forme ibride, dove a comandare a volte è la storia, a volte il gameplay . Quello che sappiamo con certezza è che dopo quarant’anni di vita i giochini elettronici si portano dietro una complessità di linguaggio che non ha precedenti. È un’industria che se non vuole morire è condannata a inseguire tecnologie e a modificare di volta in volta la propria sintassi narrativa. L’ortodossia non apparterrà mai a questo mondo.

Prendi il caso di Jelly Mario. Apparentemente è Super Mario, quello però degli anni Ottanta con i baffoni marroni tutti pixellati. Ma non è il solito Mario: sembra di gelatina, ondeggia e fluttua esplodendo in migliaia di piccoli quadratini. È un esperimento storto e psichedelico come un disco dei Flamming Lips. Non è un videogioco classico (esistono solo due livelli e lo trovate qui http://jellymar.io/) ma un affronto all’ortodossia dell’estetica del videogame. È qualcosa che sta tra la delicata Pixel art del Super Mario dormiente di Miltos Manetas e il feroce Cat Mario, un giochino che sembra nato per produrre frustrazioni, urletti e faccine alle Youtuber star del momento. È insomma una buffa operazione iconoclastica ma che in realtà ha il merito di suggerire come “player one” è passato a un livello 2 del gioco. E non è necessariamente un passo in avanti.

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Estetica da videogame

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L’estetica dei videogiochi sembra essersi fermata: ha smesso di evolvere, di generare nuovi generi, di stupire. Il coding dei sogni, come è stato definito all’inizio il videogioco, non fa più sognare. Dopo meno di quarant’anni dalla sua nascita commerciale, è diventato a tutti gli effetti industria, mainstream, sistema. Come dire, da quando hanno smesso di sentirsi un dio minore rispetto a cinema, letteratura e musica i giochi elettronici si sono lasciati contaminare dal peggio dell’industria culturale commerciale. L’esplosione di reboot, sequel e remake ha distorto l’immagine di questo medium, inchiodato a pochi titoli multi-milionari che fanno gran parte del fatturato. Qualche esempio? 

Destiny uscito nel 2014 è stato ed è la più grande operazione di marketing di questa industria. Il primo vero Gaas (games-as-a-service) che vorrebbe durare dieci anni. Tecnicamente è un mog (massive online game), grandi giochi online dove una comunità di utenti condivide uno spazio, e sia l’ambiente sia i giocatori cambiano nel corso del tempo. Artisticamente è come essere dentro una copertina di un libro della collezione Urania, un’orgia elettrica di colori e fantastico che allude alla migliore fantascienza degli anni Ottanta.

Siamo dalle parti di produzioni milionarie che ormai fanno impallidire Hollywood. Blockbuster che hanno generato personaggi e storie originali come quella di Kratos, il brutale e rabbioso guerriero degli dei che si vendica delle divinità. Lo ritroviamo dopo otto anni in God of War 4 con la barba lunga, accompagnato da suo figlio. Atreus è il suo specchio deformato. Nel gioco i due iniziano un viaggio di conoscenza reciproca, di passaggio dell’esperienza, dove l’essere guerriero diventa il pretesto per comprendere cosa vuol dire essere un padre. Dopo una trilogia estrema nella rappresentazione della violenza, come nei migliori romanzi di formazione si allude alla fine dall’età dell’adolescenza di quel giocatore che da più di vent’anni frequenta i videogiochi elettronici.

E questo ci ricorda che i videogiochi sono un medium giovane. Legati a doppio filo all’evoluzione delle tecnologie e quindi capaci di evolvere con esse (touch, alta definizione, riconoscimento del movimento, realtà virtuale e aumentata). Il loro processo evolutivo è ancora tutto in divenire. È come se in letteratura accanto alle storie cambiasse anche il libro come supporto fisico. Nei videogiochi la forma del supporto è interattività, e quindi racconto.

The legend of Zelda Breath of the Wild è il 22esimo capitolo di una serie videoludica nata nel 1986. Trentadue anni dopo è stato premiato come migliore videogioco. Visto dall’alto è sempre Zelda, con protagonista l’elfo Link, lo scudo, le bombe, la spada leggendaria. C’è tutto, compresa quella vena enigmistica che lo ha reso un titolo unico nel suo genere. Ma c’è anche molto altro come la scoperta di una fisica delle cose finora mai sperimentata. In questo, Zelda si gode di una libertà integrale. Il limite sono le leggi della fisica programmate dai programmatori. Ci sono giocatori che ancora oggi a distanza di più di un anno dall’uscita del gioco raccontano come hanno saputo trovare soluzioni alternative agli enigmi.

Quello di cui ci si scorda spesso è che il videogioco è un’industria nata da straordinari artigiani digitali. E come tutte le industrie sane è nel piccolo che trova spunti, direzione e ispirazione. Tanto che oggi, se vogliamo cercare qualche cosa di diverso (o di anticamente nuovo), serve guardare agli indipendenti, ai cosiddetti indie game. Non siamo di fronte a una controcultura e neppure a un movimento da coda lunga. Software house come la texana Revolver Digital (Hotline Miami, Resigns) o Double Fine di Tim Schafer (The Segret of Monkey Island, Brutal Legend) giocano con la passione per il retrogaming per suggerire come i giochi possano anche essere dissacranti e politici nel senso più alto di questa parola. What Remains of Edith Finch, premiato con la statuetta più ambita ai British Academy Games Awards 2018, è una riflessione sulla morte che non sarebbe dispiaciuta a Italo Calvino.

Ma è proprio vero che nei videogiochi vogliamo vedere quello che non sono. O che potrebbero essere.

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