Viaggio attraverso le memorie lasciate dall’occupazione italiana dell’Abissinia
Percorso emotivo attraverso le memorie lasciate dall’occupazione italiana dell’Abissinia fra il 1935 e il 1941. l palazzo del viceré e la strage di Graziani. Il tentato golpe del 1960 e del 2019. La storia di Castagna. Che ci fanno statue del leone di San Marco? Architetti e metafisica costruita. Gondar, il cinema dopolavoro e l’aeroporto di Azazò
di Jacopo Giliberto
24' di lettura
A volte ho la percezione – ma forse sbaglio – che i luoghi posseggano un’ombra della memoria di ciò che vi avvenne.
Per questo motivo, quando sono in un luogo cerco di traguardarlo in trasparenza come se fosse un’ecografia emotiva e tento di intuirvi le impronte leggère che vi hanno lasciato le vicende umane.
Mi è successo di trovarmi a Saraievo davanti a via Berretti Verdi dove Gavrilo Prinzip ha ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando e dato inizio alla prima guerra mondiale; ero a Bascapè dove l’aereo di Enrico Mattei esplodeva in volo, oppure a Corleto Perticara nel luogo in cui furono ammazzati Vicino Donata Maria, Cururachi Luigi e Salvo Matteo.
Adesso sono ad Addis Abeba, Etiopia, seduto su un gradino di pietra della scalinata di rappresentanza davanti alla facciata nel palazzo dell’università e museo etnografico, palazzo detto Genette Leul, o Guenetta Leul, o Nuovo Ghebbì Imperiale.
Comincio da qui il tentativo di viaggiare attraverso una diafanìa dell’Etiopia di oggi traguardando in trasparenza l’Africa Orientale Italiana degli anni ’30. Tutte le fotografie che seguono sono state scattate da me con il telefonino; le immagini — piuttosto mediocri — non hanno alcuna pretesa estetica o documentale e hanno lo stesso valore degli appunti gettati con la matita sulle pagine ingiallite di questo quadernetto.
Tre libri da leggere per viaggiare in Etiopia
L’articolo che segue è un diario di una ricerca sulle tracce di vita e di esperienza; tracce durevoli come la traccia della matita.
Non c’è né compiacimento né sostegno per nessuno fra coloro che vissero le storie di allora. Non c’è il colore locale, il couleur; non posseggo il senso dell’esotico, di cui mi è negato assaporare il brivido.
Non è una guida di viaggio, né un reportage.
Dopo avere scritto che cosa “non” è questo articolo, non so scrivere invece che cosa è. Forse una mappatura del pensiero.
Le letture consigliate per un viaggio in Abissinia
Per chi volesse andare in Abissinia, e in particolare sugli altipiani fra Etiopia ed Eritrea, troverà ottime guide, come per esempio quella di Lonely Planet. Ma suggerisco di affiancare alle guide solite e prevedibili anche tre libri che sono una guida interiore.
Il primo libro che consiglio è “In Etiopia con un mulo” (edizioni Edt), un intelligente e spassoso diario di viaggio scritto nei primi anni ’60 dall’irlandese Dervla Murphy. Il secondo libro è la “Gvida dell’Africa Orientale Italiana”, della Consociazione Tvristica Italiana, edizione 1938 (il nome Touring Club era poco italico e venne adeguato alle stravaganti direttive nazionaliste di Achille Starace).
Invecchiata e non aggiornata, ancora oggi la guida del Touring è di gran lunga la migliore, la più completa, la meglio dettagliata, precisa e affidabile al Corno d’Africa. Certamente su quel libretto dalla copertina di tela gialla ornata dall’aquila littoria va posta una tara formidabile, un filtro cronologico e politico, una capacità di discernimento per distinguere la propaganda, l’ingiallimento del tempo, la lettura coloniale, gli errori, gli orrori, le ingiustizie insopportabili e i brividi estetici.
Il libretto non vale per individuare gli alberghi (l’hotel Littorio o l’albergo Impero) o i collegamenti (l’autocorriera sulla carrozzabile dall’Asmara a Maccallè). Tuttavia la guida del Touring del 1938 vale ancora; ed è la migliore guida per ciò che non cambia con il tempo ovvero per la cartografia e per i monumenti, le strade, le località, i panorami.
Terzo libro consigliato: “Metafisica Costruita”, a cura di Renato Besana, Carlo Fabrizio Carli, Leonardo Devoti e Luigi Prisco, pubblicato nel 2002 dal Touring Club (questa volta il Touring Club Italiano nella dizione autentica e non staraciana), con i capitoli scritti da Marida Talamosa su Addis Abeba e da Alessandro Masi su Axum.
Utile per gli architetti più feroci: Architecture and Urbanism for Italy’s Fascist Empire, David Rifkind, Florida International University.
Il palazzo del viceré
Sotto la facciata in stile eclettico-deco anni ’30 sto delineando gli appunti con una matita e un quadernetto seduto su un gradino dello scalone di rappresentanza. Il palazzo Genette Leul, o Guenetta Leul, o Nuovo Ghebbì Imperiale era il palazzo reale fatto costruire nel ’34 dall’imperatore Haile Selassie su disegno dell’architetto tedesco Ernest Kametz, che progettò anche il Palazzo del Parlamento d’Etiopia; non so nient’altro di Ernest Kametz oltre al nome. Poi il palazzo imperiale fu occupato dagli italiani e diventò il palazzo del viceré Graziani
(violentissimo e dall’arroganza ignorante, Graziani). Oggi il palazzo è l’Università di Addis Abeba. Studenti, gioventù. Al pian terreno c’è la sala di lettura della biblioteca universitaria, il Salone Verde, un vasto salone vetrato e ingombro di banchi di lettura, scaffalature e schedari metallici in cui avvenne una strage di cui racconterò più sotto.
Di fronte alla facciata c’è, arricciato nel giardino attorno all’asta della bandiera, un monumento di forma singolare: è una specie di scala a chiocciola di calcestruzzo dai gradini ripidissimi, fatti non per essere saliti; sul più alto del 13 gradini c’è una piccola statua mediocre di un leone di Giuda, simbolo dell’Etiopia imperiale. Un giovanotto, uno studente abissino, è seduto su uno dei gradini più bassi. A fianco della spirale di calcestruzzo è posteggiata una piccola corriera bianca 40 posti che nel disegno della carrozzeria mostra almeno 30 anni d’età.
I gradini del singolare monumento a forma di scala a chiocciola là in mezzo al giardino sono 13, tanti quanti i 13 anni di fascismo fino alla presa di Addis Abeba. È un monumento di singolare e sgraziata bruttezza littoria preteso dal vicerè Graziani, e poi defascistizzato da Haile Selassie facendo posare sul gradino più alto il leone di Giuda.
Qui il 19 febbraio 1937 alle ore 11 davanti alla sua residenza il viceré Rodolfo Graziani aveva invitato gli ospiti di riguardo della comunità abissina per festeggiare la nascita di Umberto di Savoia.
Lo immagino muoversi compiaciuto e potentissimo in divisa sotto questo porticato e su questa scalinata d’onore.
Tra questi eucalipti oggi diventati imponenti, e là verso lo strano monumento fascista realizzato da Graziani in onore di Mussolini, ondeggiava la piccola folla, gli ufficiali italiani, le gentili signore, i ras etiopi, i capi della chiesa copta come l’abuna Cirillo con la tonaca nera e la barba candida.
Giù nel parco — verso la fontana e verso il portale in stile falso barocco monumentale del giardino — c’erano circa 3mila poveri abissini ai quali, come esigeva il rituale, sarebbero stati distribuiti talleri d’argento, perché la moneta parallela dell’Etiopia erano i talleri di Maria Teresa con il profilo dell’imperatrice d’Austria e la scritta M.Theresia D.G.R.Imp (dei gratia regina imperatrix), e poi quelli coniati da Menelicche e ancora i talleri con l’effige di Vittorio Emanuele.
Talleri come questo tallero d’argento con l’effige di Maria Teresa che ho comprato l’altro giorno vicino alla riva del lago Tana.
La grossa moneta nella mia mano è smerigliata da mille polpastrelli abissini prima di me di cui sfioro i rilievi del conio mentre, dalla distanza del tempo di oggi, osservo gli avvenimenti lontani.
I poveri aspettavano ciascuno il tallero, Graziani ne aveva fatti preparare 5mila, ma due partigiani eritrei mescolati fra gli invitati lanciarono due bombe, pàm!, bang!, panico, paura, sette morti, almeno 50 feriti, la gamba di Graziani fu crivellata da centinaia di schegge minutissime. Con i motori di ricerca si può trovare la foto in cui Rodolfo Graziani testimoniava all’obiettivo della macchina fotografica la gamba e le chiappa nude e perforate.
E in quel momento insieme con le due bombe antitaliane accadde una cosa che oggi non capisco. Forse fermentava da tempo una rabbia potente silenziosa feroce nella comunità italiana, perché quelle due bombe furono, per gli italiani di Addis Abeba e d’Abissinia, come un segnale per dare libertà a un vomito di demoni osceni sgorgati da una piaga dell’inferno, perché senza che nessuno imponesse ordini in pochi minuti le strade sterrate di Addis Abeba furono percorse da bande di italiani armati a centinaia che entravano nelle capanne violentavano, sgozzavano, incendiavano qualunque persona abissina vi fosse.
I negozianti italiani abbassavano le serrande delle botteghe e si armavano di fucili da caccia, gli impiegati uscivano dagli uffici con sbarre di ferro, e di tucul in tucul ammazzavano e squartavano.
E poi gli italiani fecero irruzione nei monasteri sacri di Debra Libanos e sterminarono circa 450 monaci e preti disarmati in una strage incomprensibile.
(Telegramma di Graziani: 25876 Gabinetto. Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che habet raggiunto prova assoluta correità dei monaci convento Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti monaci indistintamente, compreso vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi. Dia pubblicità et ragioni determinati provvedimento).
Nella capitale Addis Abeba furono un migliaio gli etiopi assassinati (rapporto riduttivo di Graziani a Mussolini), fra i 3mila e i 6mila (storiografi accreditati, tra i quali Angelo Del Boca), 16mila uccisi (studi recenti di parte inglese), 30mila etiopi massacrati (proteste internazionali antitaliane del governo etiope in esilio).
Per effetto contrario, questo rigurgito acido di violenza fece accendere tra gli abissini una rabbia feroce contro l’occupazione degli italiani che alimentò anni di resistenza attivissima e mai domata.
In quel pogrom le bande di italiani armati incendiarono la cattedrale copta di San Giorgio in cui, pochi anni prima, il ras Tafari Maconnèn era stato incoronato imperatore con il nome Haile Selassie, cioè Forza (Haile) della Trinità (Selassie).
Percorro l’ambulacro della cattedrale di San Giorgio leggendo la Gvida dell’Africa Orientale Italiana, «solido edificio ottagonale dalle linee classicheggianti, dell’ing. Castagna, restaurato e riconsacrato nel 1937», ma la guida del Touring non specifica che l’edificio sacro fu “restaurato e riconsacrato” perché un anno prima era stato distrutto dagli italiani in quel febbraio di sangue.
Ancora il palazzo, ma nell’anno 1960: la strage del Salone Verde
Una striscia di violenza unisce la chiesa di San Giorgio e il palazzo imperiale, vicereale, universitario. Era il dicembre del 1960 quando a fianco della chiesa di San Giorgio fu alzata una forca con pochi pali di legno di eucalipto, e alla forca fu appeso il corpo suicida di Girmame Neway, golpista contro l’imperatore Haile Selassie.
In quel dicembre 1960 Girmame Neway fu impiccato già morto a fianco della chiesa perché giorni prima aveva massacrato a colpi di mitra il vertice dell’impero etiopico, che egli aveva sequestrato nel palazzo dell’imperatore, sì, il palazzo di Graziani. Sempre quel palazzo.
Nei giorni prima, il generale Menghistu Neway e suo fratello Girmame Neway, insieme ad altri ufficiali golpisti, cercarono di cambiare il regime imperiale.
Non violarono il sacro e intoccabile Haile Selassie, ma ci fu battaglia attorno al palazzo imperiale e colpi di mitra entrarono nell’appartamento – si visita ancora oggi il suo mediocre arredamento lussuoso in stile anni ’30, e nel boudoir sono indicati i buchi aperti dai proiettili golpisti – e sequestrarono gli ufficiali e i suoi ministri nel Salone Verde al pian terreno del palazzo. Nella sala verde dove oggi c’è il salone di lettura della biblioteca universitaria.
Oggi c’è silenzio, il frusciare delle pagine dei libri.
Al contrario, non c’era silenzio in quel 19 dicembre 1960. Il golpe era fallito, la Chiesa copta si era schierata con i lealisti governativi, ma nel Salone Verde con i prigionieri, Girmame fu il primo tra i golpisti: gli scivolarono i proiettili dal mitra e il sangue quasi nero degli ostaggi schizzò sui muri intonacati di verde. In questo modo nel dicembre 1960 accadde la strage del Salone Verde; 15 dei 21 prigionieri furono massacrati.
Ammazzato ras Abebe Aregai, che era stato un eroe della resistenza contro l’occupazione italiana, gettato nel sangue il corpo di ras Seyoum Mangasha principe del Tigrai, Dejazmatch Letyibelu aveva guidato la resistenza antifascista, eccolo rovesciato là sul pavimento dove oggi c’è lo schedario.
Fallito il golpe, i fratelli Girmame Neway e Menghistu Neway fuggirono; circondati il 24 dicembre 1960, Girmame sparò prima al fratello e poi a sé. Girmame morì, e il giorno dopo il cadavere suicida fu appeso di lato alla cattedrale di San Giorgio.
Invece il fratello Menghistu Neway, pur ferito gravemente, sopravvisse; fu arrestato e processato; non si pentì. L’imperatore volle graziarlo con un ergastolo, ma la rabbia delle famiglie degli assassinati del Salone Verde impose la vendetta e Menghistu Neway fu impiccato il 30 marzo 1961 quando io ero un neonato di 20 giorni.
Nel Salone Verde s’era spezzato qualcosa.
La strage di Addis Abeba del ’37, un osceno pogrom in cui bravi italiani normali e civili avevano macellato africani a migliaia, aveva acceso odio e risentimento: in un modo simile la strage del Salone Verde nel dicembre ’60 aveva interrotto un sogno e aveva aperto la strada di un incubo. Nei giorni della strage del Salone Verde ras Tafari Maconnèn, imperatore con il nome di Hail Selassie, non aveva più il suo popolo. Parlava il linguaggio di un mondo finito mentre l’Etiopia degli anni ’60 stava cambiando con velocità. L’impero durò ancora 14 anni; il dittatore comunista Menghistu nel 1974 fece uccidere l’imperatore e instaurò il durissimo e terrificante regime del Derg.
Gli etiopi chiamano questo dittatore comunista con il nome completo, Menghistu Haile Mariam (Menghistu Forza di Maria), per distinguerlo dagli altri etiopi famosi che portano lo stesso nome, come il generale golpista del 1960 Menghistu Neway.
Le candele del golpe. Che cosa accade
Ma che cosa succede oggi quando in Etiopia c’è un tentativo di colpo di Stato? Mi è capitato di trovarmici in mezzo per diversi giorni, inseguìto dagli avvenimenti. Non entro nei dettagli, ma racconto per sommi capi.
Giorno uno, a cena in un ristorante. Alla parete la tv trasmette il telegiornale, viene ripetuto il servizio della sottosegretaria italiana agli esteri Emanuela Del Re in visita ufficiale nel Paese.
Prima che in tavola venga servito lo zighinì – breaking news – la programmazione tv viene interrotta, parla il presidente. I camerieri smettono di portare le vivande ai tavoli, si fermano ai margini della sala, tutti gli occhi fissi allo schermo.
La tv dice in diretta che in due differenti fatti di sangue ad Addis Abeba e nel capoluogo della regione dell’Amara, Bahar Dar, sono stati uccisi alcuni politici di rilievo, molto seguiti dagli etiopi. Il colpo di stato è fallito e il presidente invita alla calma. Dopo questo annuncio, la programmazione televisiva scompare.
Da quel momento e per i giorni successivi tutte le tv etiopi, comprese le reti locali, mandano a rullo solamente le fotografie delle personalità uccise durante il tentativo di colpo di Stato, affiancate dall’immagine di alcune candele accese e con il commento musicale di una canzone di lutto.
Zero informazioni. Zero.
Solamente i ritratti e le candele, di continuo, notte e giorno.
Giorno due, dalla mattina internet ha interrotto ogni collegamento e non funziona, da nessuna parte, in nessum modo. Si può comunicare solamente con gli sms.
Zero poliziotti e zero militari nelle strade.
In tv candele e ritratti delle vittime.
Giorno tre, dalla mattina non funzionano nemmeno i telefonini. Non esiste più la rete. Nemmeno gli sms. Informazioni solamente di bocca in bocca: se hanno chiuso i telefoni, significa che siamo vicini alla soluzione.
Zero poliziotti e zero militari nelle strade.
In tv candele e ritratti delle vittime.
Giorno quattro, si riaprono le comunicazioni telefoniche, ma non internet; il giorno precedente l’uomo che aveva tentato il colpo di stato è stato ucciso nelle vicinanze di Gondar. Scontri con i suoi sostenitori nella città di Lalibela, luogo di origine del tentato golpista.
Zero poliziotti e zero militari nelle strade.
In tv candele e ritratti delle vittime.
Giorno cinque. Internet ancora chiuso.
L’aeroporto di Addis Abeba viene “occupato” dai militari, dai picchetti d’onore e dalla banda musicale per la cerimonia di trasporto della salma di uno degli uccisi verso la sua Maccallè. In tv un dibattito con le autorità più autorevoli viene alternato con le immagini di fotografie e candele.
La cattedrale di San Giorgio, Addis Abeba
Prendo questi appunti seduto su una panca in fondo a Churchill Road dopo in piazza Menelicche (Minilik), che nel ’38 era piazza dell’Impero su cui si affacciavano le sedi dell’Aci (Regio Automobil Club, in sigla Raci), dell’Anas e un Tribunale Civile.
Circondata da un giardino con alberi imponenti (nelle foto d’epoca era una spianata brulla) è la cattedrale di San Giorgio, la chiesa politicamente più importante di Addis Abeba.
Mi racconta il tassista Afwerk: la chiesa fu costruita da Sebastiano Castagna, ingegnere italiano prigioniero della battaglia di Adua, al quale con i trattati di pace del 1911 tra Italia e impero etiope fu consentito di completare il lavoro.
Cerco di capire qualcosa di più su Castagna, torinese di fatto e nato ad Aidone, il “balcone” della dèa Proserpina affacciato altissimo sul panorama della Sicilia centrale. Era allievo sergente del Genio, poi furiere maggiore. Capo dei Lavori pubblici di Menelicche, Castagna costruì in Etiopia strade, ponti e altre opere pubbliche.
Era italiano fra gli italiani, etiope fra gli etiopi dei quali parlava alla perfezione la lingua; sposò una nobildonna di alta stirpe abissina.
Nel ’38 Castagna, vecchio settantenne fiducioso nell’amicizia e nell’uomo, per conto del governo italiano di occupazione fu mandato a trattare con un ras ribelle suo conoscente, che lo ingannò, lo prese in ostaggio. L’ingegnere scappò nella boscaglia, ma fu raggiunto e ucciso a Cusae.
Ancora Castagna e la chiesa della Santissima Trinità
Fedeli velati nel manto candido si avvicinano alle porte laterali della chiesa della Santissima Trinità, il cui bronzo dei battenti è così lucido e dorato da sembrare ottone. Dopo la funzione del mattino, le chiese copte durante il giorno sono chiuse al culto e in genere vi possono entrare solamente i turisti pagando un obolo; i fedeli ne restano fuori e compiono semplici riti devozionali come preghiere, genuflessioni e lucidando con le dita le parti più sacre e miracolose dell’esterno come i battiporta o alcuni dettagli delle statue dei santi.
Copio il testo del Touring sulla chiesa della Santissima Trinità.
«In viale Duca degi Abruzzi, a sin., imponente edificio in pietra a croce latina con cupola alla crociera, su disegno dell’ing. Castagna. Lasciata incompiuta dal Negus, sarà ultimata e consacrata fra breve». Qui la foto scattata nel ’36 dall’Istituto Luce.
Fu completata dopo l’occupazione italiana, quando l’imperatore Haile Selassie fece dipingere al bravissimo pittore Afewerk Tekle diversi affreschi che celebrano la ritrovata indipendenza nazionale e il ritorno dell’imperatore.
Dentro, in una cappella del transetto, ci sono le tombe di Haile Selassie e dell’imperatrice, con pesantissimo granito cupo di stile egizio-axumita.
Nel parco del recinto consacrato attorno alla chiesa della Trinità si distribuiscono all’ombra degli eucalipti le tombe di combattenti per la libertà dell’Etiopia, una tomba comune che raccoglie i resti di molte delle vittime della strage di Addis Abeba del ’37, la tomba di alcune delle più famose vittime dell’agghiacciante regime comunista del Derg guidato dal dittatore Menghistu, la tomba dell’attivista inglese Sylvia Pankhurst (figlia della suffragetta Emmeline Pankhurst).
Il Castagna, senza saperlo, con la chiesa della Trinità disegnò anche il monumento all’unità etiope, all’indipendenza e a un popolo di gente fiera che sorride.
Il vecchio parlamento e i leoni di san Marco
Nell’arrivare alla chiesa della Santissima Trinità bisogna sfiorare il vecchio edificio del parlamento etiope, nascosto dietro una grande recinzione calcinata e a una vegetazione imponente di eucalipti. Scatto un paio di foto a un dettaglio della recinzione rovinata: su due pilastri maltrattati dagli eventi vi sono due sculture di bronzo corroso che raffigurano il leone alato di San Marco.
Non sono leoni di Giuda, simbolo dell’Etiopia, cioè quelli che reggono in spalla una croce astile e calzano sul capo in bizzarro triregno imperiale abissino che sembra un panettone Vecchia Milano.
No, questi non sono leoni di Giuda, questi sono proprio leoni marciani “veneziani”, nell’iconografia veneziana più classica.
Perché la costruzione voluta nel 1931 da Haile Selassie e disegnata dall’architetto tedesco Ernest Kametz ha questi leoni?
Addis Abeba: com’era, come poteva essere e com’è
I monumenti più interessanti della capitale etiope precedono l’occupazione italiana. Prima di Menelicche — fu il sovrano che visse a cavallo fra Ottocento e Novecento e che creò l’Etiopia moderna — di Addis Abeba non v’è nulla, perché la città venne fondata dall’imperatrice Taitù nella piana sotto la fortezza montana di Entoto. La chiamò Nuovo Fiore, ma quando parlano fra loro gli etiopi la chiamano semplicemente “La Nuova”, Addis. Gli edifici più notevoli sono quelli costruiti da Haile Selassie negli anni ’30 prima dell’occupazione italiana. Ma resta davvero poco dell’Addis Abeba di quel periodo.
Nei 5 anni di occupazione gli italiani hanno lasciato il tracciato dei viali del centro, qualche edificio pubblico, diverse villette in stile funzionalista, quelle cioè con il giardino e i balconcini che si vedono attorno a tutte le cittadine italiane. E di italiano restano il quartiere Incis, Istituto nazionale case impiegati dello Stato, e il caotico quartiere Mercato, che fu impostato dal piano regolatore italiano come “mercato indigeno” e che oggi è uno dei mercati più grandi dell’Africa.
Il 6 maggio 1936, subito dopo la conquista, Giuseppe Bottai già governatore di Roma assunse il governo civile della capitale abissina. Rimase in carica un paio di settimane, il tempo sufficiente a dare all’ufficio tecnico del Governatorato di Roma il compito di tracciare il piano regolatore di Addis Abeba, diventata capitale dell’impero.
Bottai era uomo di potere, faceva parte del gruppo di potere più vicino a Mussolini (oggi si direbbe “il cerchio magico”), ma era anche uomo di cultura sensibile, osservatore attento delle tendenze dell’arte e promotore dei percorsi dell’architettura razionalista.
Fra i primi provvedimenti di preparazione del piano regolatore ci furono divieti di costruzione, per evitare speculazioni sulle aree cui il piano regolatore avrebbe dato maggiore interesse immobiliare, e Bottai ordinò che si scattassero le prime rilevazioni fotogrammetriche, un utilizzo urbanistico allora innovativo e sperimentale offerto dalla regia aeronautica.
Il 17 luglio 1936 il governatore di Addis Abeba Alfredo Siniscalchi (Bottai era già altrove) autorizzò i tecnici dell’Incis a costruire il quartiere di villette, ancora oggi fra i rioni migliori della città.
I criteri di base del piano regolatore tratteggiato a fine luglio 1936 dividevano una separazione netta tra la città italiana e la città africana (“indigena”), prevedevano un centro monumentale e istituzionale ricco di visioni prospettiche, e creavano le destinazioni d’uso dei diversi quartieri. I progettisti erano gli ingegneri Arturo Bianchi e Cesare Valle e l’architetto Ignazio Guidi.
Poi i lavori rallentarono. C’erano segnali forti di rivolta dopo la strage orrenda di Addis Abeba nel febbraio ’37. A ottobre erano stati lastricati alcuni viali, erano state completate appena sei palazzine e qualche altro edificio.
Quel piano regolatore non andava bene; per applicarlo sarebbero serviti espropri cospicui, demolizioni importanti, sbancamenti e terrazzamenti di rilievo mentre l’edilizia locale offriva solamente materiali poveri come la cicca, cioè l’impasto di fango e paglia con cui si realizza anche l’adobe. Gli altri materiali, calce, mattoni, tegole, cemento, erano d’importazione dell’Italia e non si trovavano. Il piano regolatore venne ridisegnato del tutto; si spostò il centro tra la chiesa di San Giorgio e la bella stazione ferroviaria in stil francese costruita ai tempi di Menelicche, cioè verso una spianata meno monumentale e prospettica ma anche più accessibile.
Nella primavera 1940 la città era un fermento costruttivo (il 20% già realizzato), che però durò ancora pochissimo. In giugno l’Italia entrò in guerra e in pochi mesi fu spazzato quell’Impero inutile e vanaglorioso per il quale morirono tanti italiani e tanti abissini; resistette solamente un gruppo di irriducibili asserragliati tra Gondar e Azazò.
Di Axum, dell’Arca, degli obelischi, del mercato
Nella regione del Tigrai il luogo che attrae più turisti è Axum, che può essere scritto anche con la grafia Aksum. Axum ha due caratteristiche turistiche, sono gli obelischi in stile axumita (gli inglesi con la finezza artistica che li denota dicono “stile a testa di scimmia”, monkey head) e il complesso sacro delle chiese in cui, fra l’altro, si conserva l’autentica originale Arca dell’Alleanza progettata personalmente da Iahvè a Mosè sul monte Sinai (per i dettagli costruttivi, si veda Esodo, 25). Non può essere confusa con l’altrettanto autentica e originale Arca dell’Alleanza che nell’anno 70 i soldati romani catturarono nel Tempio di Gerusalemme e portarono come bottino a Roma, come raffigurata nelle immagini scolpite dell’Arco di Tito.
I fedeli copti (si definiscono “ortodossi”) sanno che l’Arca conservata ad Axum è la più originale di tutte, viene tenuta coperta alla luce e invisibile agli occhi umani. L’imperatore Haile Selassie costruì a fianco dell’antica chiesa di Santa Maria di Sion una cappella un po’ bruttina con una cupolina di rame avverdito dal tempo in cui conservare la Sacra Reliquia, ma c’erano infiltrazioni d’acqua. In tempi recenti è stata costruita a fianco della prima una seconda cappella ancora più bruttina, dalla cifra cementifera e cupoletta in autentico similoro, in mezzo a un cantiere di calcinacci, in cui conservare questo Sacro Tesoro.
Poi gli obelischi. Gli italiani conquistarono Axum il 16 ottobre 1935 e rimasero ammirati da questi obelischi di ispirazione egizia ma realizzati con uno stile originalissimo.
Uno dei più alti si chiama Obelisco di Roma perché si decise di portarlo via dall’Etiopia per donarlo a Roma. Alto 24 metri, era spezzato in 5 grandi frammenti distesi sull’erbaccia del Parco delle Steli. Centinaia di soldati italiani ne caricarono i frammenti e con un trasporto colossale, curato dalla Gondrand, via nave arrivò all’Italia per essere montato in piazza Axum all’Eur. Poi l’architetto Marcello Piacentini preferì posare all’Eur il più grande obelisco ideato per ricordare Guglielmo Marconi, mentre l’obelisco di Axum fu rimontato davanti a quello che oggi è l’edificio della Fao, ma che allora era il ministero dell’Africa Italiana.
Una quindicina di anni fa l’Italia riconobbe il torto coloniale arrecato all’Etiopia e, insieme con la comunità internazionale, restituì e rimontò l’obelisco ad Axum. Fu rimesso in sede anche quell’enorme mozzicone dell’Obelisco di Roma che, alla partenza, i soldati italiani avevano dimenticato sul sagrato della chiesa di Santa Maria di Sion.
Che cosa rimane ad Axum dei cinque anni di occupazione italiana?
Intanto, c’è la ricostruzione dell’Obelisco di Roma, che nel ’35 venne trovato rovesciato nel pantano e spezzato da secoli. Poi ci sono diverse costruzioni nel centro della città vecchia. E c’è il mercato.
Dalla guida del Touring Club del 1938: abitanti 10mila di cui 87 italiani, ristoro e spaccio, posta, telegrafo, telefono, infermeria, sede di Residenza, Axum «è ora un importante centro indigeno, a sud-est del quale è sorta la piazza del mercato e la città italiana».
Lungo la via che si affaccia sulla piazza Mercato vi sono alcune casette in stile anni ’30, quello fu l’ufficio postale, quella casa era la stazione dei reali carabinieri.
Metafisica costruita africana
Gli altri vogliono vedere gli obelischi o la chiesa di Santa Maria di Sion.
Io invece fermo l’automobile in piazza Mercato, Axum.
Il sole equatoriale verticale sullo sfondo di cobalto senza nuvole azzera le ombre e le vibrazioni dei chiaroscuri.
O bianco o nero.
Oppure i colori pazzi con cui l’Africa veste animali rocce donne piante uomini cielo bambini e terra, la terra rossa e tenace di molte parti dell’Africa. (Qui no; qui la terra è quasi bianca).
La piazza Mercato disegna un quadrato perfetto con lati di 150 metri.
Le colonne del porticato scandiscono un ritmo fitto e veloce. Sotto il porticato ci sono mille attività, ogni campata ha un negozietto.
A metà del lato principale, di fronte all’edificio dove c’erano le regie poste e la caserma dei carabinieri, il ritmo delle colonnette porticate è spezzato in simmetria dall’edificio che era il bar-caffè, con due campate più alte che reggono una terrazzina sporta sulla piazza.
Immagino i tè e i caffè, il gioco del biliardo.
Davanti, un tiglio dalla chioma vasta sotto la cui ombra si radunano i vecchi.
Salgo sul predellino della macchina e diretto verso il tiglio ombroso scatto con il telefonino una foto affrettata, che viene sfocata e mossa.
Una foto da cancellare senza pensare; un tocco di tasto, elimina, e via.
Ma se è brutta come foto, pare un dipinto a pennellate larghe.
In una città – in un Paese anzi in un continente – di anarchia costruttiva, di lamiere zincate e muri di fango seccato, di capanne, grattacieli e tucul mai uguali, di strade che paiono sgorgate dalla logica di Alice nello Specchio, questa piazza dal ritmo regolare e sincopato accesa di sole e contiene la cifra della più pura metafisica delle città di fondazione del razionalismo littorio degli anni ’30.
Sembra una foto in bianco e nero scattata 80 anni fa nelle piazze accese di sole di Sabaudia, Littoria e Torviscosa. Ci sono però due elementi che distorcono la purezza della metafisica costruita littoria.
Il primo elemento di distorsione è il gusto “coloniale” del progettista. Come in altri esperimenti architettonici tentati durante l’occupazione italiana, in piazza Mercato non c’è il passo solenne della metafisica razionalista; c’è un ritmo corto e un respiro ansimante che vuole adeguarsi all’idea coloniale del piccolo mercato spicciolo e dettagliato degli “abissini”: un compromesso tra razionalismo e irrazionalità coloniale, un desiderio prendere spunto dal “sapore” locale per insegnare a questi “indigeni” uno stile che piaccia anche a loro.
Il secondo elemento è la personalizzazione africana. Nei decenni le colonne del porticato sono state colorate con tinte vivaci e stridenti, la copertura è l’immancabile arlecchinata delle pezze di lamiera zincata che accomunano nella difformità l’edilizia africana.
Il piano regolatore di Axum approvato il 17 luglio 1937 prevedeva la sistemazione del centro politico-amministrativo lungo la strada imperiale, di lato dai tucul della città indigena. Al concorso vinsero cinque progetti, al primo posto il gruppo Degli Innocenti, Filippone e Marconi che immaginava una zona residenziale italiana a sud, in una parte più salubre e gradevole, dove poi in effetti si è allargata la città. Si qualificò anche il progetto degli architetti Bottoni (sì, il Piero Bottoni che a Milano costruì il Qt8 e il Monte Stella), Giordani, Legnani e Pucci: nell’area dello Stabilimento Pirotecnico prevedeva la costruzione di un grande “teatro di masse”.
Idee sprecate.
Nel 1939 i gruppi vincitori e l’Ufficio tecnico comunale di Axum ebbero dal nuovo podestà Enzo Farnè l’incarico di elaborare un piano definitivo, coordinati da Plinio Marconi (1893-1974). Non venne superato lo stadio del Piano particolareggiato di alcune zone del centro cittadino, piano poi sospeso nel ’41 poco prima che gli inglesi liberassero la città dall’occupazione italiana.
Di quella metafisica littoria oggi restano il colonnato millefiori dal ritmo affrettato e le tettoie di lamiera arlecchinata. Metafisica africana.
Il cinema Dopolavoro
Di Gondar si visitano i castelli di Fasil, l’imperatore etiope che nel ’600 fece costruire un complesso di palazzi unico per l’Africa nera, e con i castelli si visitano gli edifici che vi sono correlati, come la grande vasca cerimoniale nel fondovalle o come la suggestiva chiesa della Trinità (Debre Birhan Selassie).
Poi i turisti scivolano verso l’aeroporto di Azazò.
Qualcuno confronta il complesso imperiale di Gondar – le rovine dell’abbandono, il restauro dell’occupazione italiana, i bombardamenti inglesi contro gli italiani asserragliati nel 1941, la ricostruzione del dopoguerra fino all’Unesco di oggi – con i palazzi coevi del ’600 europeo. Ovvio, non c’è confronto con i palazzi di rappresentanza e di potere politico come Versailles, il Nymphenburg bavarese, Caserta o villa Pisani di Stra.
L’unica vicinanza è con i castelli propriamente detti.
Ma in fondo alla citta della monumentale di Fasil, l’ultimo dei castelli con cui ogni imperatore volle arricchire il complesso, c’è qualcosa che ricarda il palazzi italiano dei principati padani.
È il castello di Bacaffà, costruito nella prima metà del ’700, che con il suo cortile fa pensare alle cavallerizze delle corti signorili dell’Alta Italia, a Gualtieri, e il salone dei Banchetti ricorda le Gallerie degli Antichi di Mantova o di Sabbioneta.
Percorro il salone allungando le gambe a compasso e, come fa ogni bravo nevrotico, evito di posare i passi sulle increspature del pavimento. Il soffitto a travi è risolto gettandovi sopra una tavola di calcestruzzo lunga quanto tutto il Salone dei Banchetti, opera del restauro italiano condotto dal Regio Genio Militare, con cultura ricostruttiva militarmente modesta ma efficace.
Cerco altre tracce.
Ne trovo, ma devo percorrere la cronologia del luogo.
Gondar negli intendimenti fascisti avrebbe dovuto diventare la capitale dell’Africa Orientale Italiana al posto di Addis Abeba.
Era meglio collegata di Addis Abeba, è a cavallo con le ambe (alture) che portano verso l’Asmara e l’Eritrea, e sede di importanti testimonianze storiche. Sarebbe diventata una città italiana nel cuore dell’Africa.
Era collegata (leggo la “Gvida”) con l’Asmara con la linea aerea dell’Ala Littoria, biglietto 700 lire, partenze dall’aeroporto di Gondar Azazò nei giorni di mercoledì, sabato e lunedì. Due alberghetti orrendi: Littorio 7 camere, Cigno 7 camere, («modestissimi»); ristoranti Littorio, Fior del Tana, Trattoria Romagnola e Dopolavoro. Uffici del Banco di Roma presso l’ufficio postale e della Banca d’Italia, abitanti 14mila di cui 2mila italiani.
Il progetto urbano del geniale architetto fiorentino Gherardo Bosio viene descritto così dalla “Gvida” del Touring: «Secondo il piano regolatore (1938) la città indigena sarà riordinata e valorizzata senza alterare le sue caratteristiche».
Come da prassi di regime, c’era la piazza delle Adunate (oggi piazza Meskel) che venne spianata e la piazza degli Affari su cui si affacciano ancora oggi uffici e amministrazioni.
Sul viale centrale c’è ancora oggi uno dei pezzi più pregiati, un prontuario massonico dell’architettura littoria coloniale: il Cinema.
Allora si chiamava Cinema Dopolavoro, oggi si chiama Cinema Gondar, ma conserva ancora fortissime le due brevi e tozze torri cilindriche della facciata e la cortina che media tra le geometrie del razionalismo europeo e le morbidezze della cicca dei tucul o dei granai dei dogon in Africa Occidentale.
Le costruzioni immaginate dagli architetti guidati da Bosio ci sono ancora oggi. In questo filmato Luce dai toni ridicoli (dal secondo 49) si vedono le case e gli edifici del centro di Gondar presenti ancora nel 2019, comprese le torri del Dopolavoro.
Ancora oggi perfino i pilastrini dei corrimano lungo i marciapiedi sono gli stessi che si intravedono nel filmato, disegnati allora a somiglianza delle torri del castello antico dell’imperatore Fasil.
Oggi sono edifici maltrattati da decenni di esposizione all’aria aperta, ma sono ancora tutti riconoscibili.
Hanno cambiato destinazione, il Comando Militare con la torre oggi ospita l’ufficio turistico e alcuni negozi, per esempio.
L’ufficio postale centrale, l’Hotel Ethiopia, gli uffici dell’Ethiopian Airlines in quello che fu il Dopolavoro sono gli edifici che si possono vedere nel vecchio video dai tratti inconsapevolmente comici. Il nuovo albergo che stava costruendo la Compagnia italiana alberghi Africa Orientale fu disegnato dall’architetto romano Arturo Hoerner; l’Incis (Istituto nazionale case per gli impiegati dello Stato) affidò la costruzione di sette condomìni a Giacomo Rubino.
I fantasmi di Gondar
Il progetto di Gherardo Bosio però prevedeva che la Grande Gondar italiana fosse costruita più a valle, non lontana dall’aeroporto di Azazò, a 16 chilometri dal centro storico. Ecco, sarebbero stati questi gli edifici della Grande Gondar immaginata e mai realizzata.
Ad Azazò ci sono diverse case prefabbricate di fattura italiana a uno o due piani di costruzione semplice, oggi del tutto etiopizzate per colori e allestimenti. Scrivo queste note seduto nella sala d’aspetto-d’imbarco-di ristoro dell’aerostazione nell’aeroporto di Gondar Azazò.
L’aerostazione è moderna e povera.
Più discosti verso la collina boscosa vedo i resti della vecchia torre di controllo e lassù, coperti fra gli alberi, il portico dell’aerostazione italiana e circolo avieri.
Socchiudo gli occhi e cerco di intravedere sulla pista l’ultimo vecchio trimotore Caproni 133 della 26ma/bis squadriglia e i due biplani da caccia Cr42 che erano sopravvissuti.
Là dietro gli alloggiamenti potrei intuire il pilota Antonio Giardinà, e il pilota Giuseppe Mottet, e poi Ildebrando Malavolta che era stato bambino a Ripatransone, e il comandante della base aeronautica che non c’è più, Dario Busoni.
Percorro un parallasse mentale con l’autunno del ’41 quando l’ultimo presidio militare italiano guidato da Guglielmo Nasi aveva trasformato Gondar in fortezza assediata come in una ridotta fortificata.
Grazie al razionamento efficiente di cibo e materiali, approvvigionamento di pesce dal vasto lago Tana che luccica laggiù, gli italiani, circondati da inglesi, indiani, sudafricani e australiani, resistettero a lungo.
Guglielmo Nasi, generale formidabile, era anche un poeta mediocre e vanitoso; il 10 luglio 1941 insieme con gli ordini alle truppe accerchiate con lui a Gondar emanò anche una canzonetta in versi fra l’eroico, l’ingenuo, l’inconsapevole ridicolo, il tragico.La canzonetta degli assediati senza speranza si intitolava “I gondarini”. La dimensione comica di una tragedia cosmica (non può essere un caso se comico e cosmico sono distinte solamente dal serpentello della esse).
Il grosso e impacciato trimotore Caproni continuò ad alzarsi da questa pista - soprattutto per rifornire i presìdi accerchiati - fino all’8 agosto 1941 quando fu danneggiato a terra.
Scriveva Giardinà:
Gondar, 23 luglio 1941
Qui siamo rimasti in tre piloti con due apparecchi Cr42: sottotenente Malavolta, maresciallo Mottet e io. La base è comandata dal colonnello Busoni, bravissimo comandante, da noi tutti benvoluto. Tutta l’aviazione dell’impero è qui presente con i nostri due caccia e un Ca 133 duramente colpito in questi giorni, ma già quasi efficiente. Giorni fa, occorrendo un pezzo di ricambio per il motore, sono stato a recuperare i resti dell’apparecchio del povero Omiccioli. Sono stato anche a portare sulla sua tomba un mazzo di fiori, a nome di tutti i componenti la 410a).
Quando fu colpito anche il caccia del coraggioso maresciallo Antonio Giardinà della 410ma squadriglia, il presidio italiano di Gondar fu difeso in questo cielo — azzurro come ozono lucente — dal solo biplano da caccia Cr42 del tenente Ildebrando Malavolta.
Il 24 ottobre del 1941 Malavolta si alzò per mitragliare due aeroporti inglesi da solo, lui sul suo biplano solo contro l’intera l’armata britannica. Non tornò, fu abbattuto, e i nemici aviatori sudafricani gli resero onore con un messaggio di cordoglio per l’avversario.
Cerco qui sulla pista dell’aeroporto di Gondar Azazò le ombre delle esistenze lontane e dissolte di Giardinà, di Malavolta e di tutti gli altri di ogni nazione e varietà umana.
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