Un’europa delle patrie senza visione comune

Europa, la parabola degli Stati-nazione

di Donald Sassoon

25 mar zo 1957: firma del Trattato di Roma

20' di lettura

E dunque eccoci ancora una volta a discutere dell’Europa. Qualcuno pensa sia ovvio: non abbiamo sempre discusso dell’Europa? In realtà no: noi europei abbiamo cominciato a discutere dell’Europa solo di recente, solo a partire dalla seconda guerra mondiale.
Quando l’Europa era il centro dell’universo, più di centocinquant’anni fa, gli europei non parlavano dell’Europa, ma delle rispettive nazioni. Ma ora che ogni nazione europea, perfino la Francia, perfino la Gran Bretagna, perfino la Germania, appartiene alla periferia del mondo, parliamo incessantemente dell’Europa, ci domandiamo quale sia il suo ruolo, dove vada.
Perdonatemi se faccio un passo indietro, com’è abitudine degli storici; d’altronde, il passato è il nostro territorio.

Centocinquant’anni fa, gli europei erano impegnati a creare gli Stati-nazione, non l’Europa. Nessuno parlava di un’Europa unita, nemmeno Giuseppe Mazzini, che accettava l’idea che un'Europa unita fosse possibile solo dopo la creazione degli Stati nazionali.
L’Europa all’epoca era talmente divisa che quando gli europei pensavano alla guerra pensavano soprattutto alla guerra contro altri europei: i britannici e i francesi avevano paura dei tedeschi, gli italiani degli austriaci, i russi si inquietavano di tutto, come oggi.
Lungi dall’unirsi, centocinquant'anni fa gli europei si preparavano alle guerre più gravi della loro storia, più gravi della Guerra dei Cent’anni, più gravi della Guerra dei Trent’anni. Un secolo fa, la prima guerra mondiale (definita mondiale, ma combattuta principalmente in Europa) distrusse la possibilità di una supremazia planetaria del vecchio continente. E si svolse in un’epoca in cui gli Stati Uniti erano già la prima potenza industriale del pianeta, anche se gli europei non ne erano ancora consapevoli.

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Nel momento in cui il conflitto terminò, solo i più lungimiranti si resero conto che l’Europa non poteva più essere il centro dell’universo, ma la maggior parte degli europei non lo aveva ancora capito. I britannici e i francesi, che possedevano gli imperi più grandi, continuarono a coltivare le loro illusioni per tutti gli anni 20 e 30. E continuano a fare la stessa cosa oggi, decenni dopo aver perduto i loro imperi.
Anche altri coltivavano illusioni. I russi esattamente cento anni fa cominciarono un’esperienza straordinaria: la costruzione di una società industriale che avrebbe dovuto diventare un modello per il resto del mondo, perché avrebbe condotto a una società comunista giusta ed eguale, senza classi sociali né proprietà privata.
Anche i tedeschi, sotto Adolf Hitler, sognavano un’Europa unita sotto la loro direzione, purificata di elementi indesiderabili come ebrei, zingari e slavi. E non dimentichiamo Mussolini e i suoi sogni patetici di un ritorno alle glorie dell’antica Roma.
La seconda guerra mondiale aggiunse altri cinquanta milioni di morti ai venti della prima e completò la relegazione dell'Europa dal centro alla periferia del pianeta.

Alle origini della sedicente supremazia europea

Nei decenni successivi, i francesi e i britannici, per non parlare dei belgi e dei portoghesi, dovettero abbandonare i loro imperi. L’Europa stessa era divisa tra Est e Ovest, così come la Germania. Le nuove generazioni erano consapevoli dell’orrore delle guerre e determinate ad abbandonare qualsiasi progetto bellicoso.
Il sogno comunista incarnato nell’Unione Sovietica sprofondò inopinatamente tra il 1989 e il 1991. La situazione con cui ci confrontiamo oggi e che continueremo ad affrontare è determinata in larga parte da quell’evento capitale.

Ma consentitemi di tornare innanzitutto sulla questione della sedicente supremazia europea. L’Europa, anche prima del XVIII secolo, non era il centro dell’universo.
Immaginiamo un’astronave extraterrestre (da Marte o da Giove), con a bordo sociologi, storici, antropologi e così via, incaricata di una missione di indagine sul pianeta Terra. Se fosse arrivata nel XVI o nel XVII secolo è poco probabile che avrebbe evidenziato, nel suo rapporto, la supremazia mondiale dell’Europa, salvo forse in certi ambiti scientifici.
La Cina, l’India dei Moghul e forse perfino il Giappone erano politicamente più avanzati, con una burocrazia più sofisticata e una medicina più progredita; questi tre imperi avevano un livello artistico comparabile a quello del Rinascimento, erano molto avanti dal punto di vista tecnologico e straordinari in matematica. (Dopo tutto furono gli indù a inventare quelli che chiamiamo numeri arabi nel III secolo avanti Cristo, ripresi poi dagli arabi a partire dal IX secolo e giunti in Europa soltanto nel X secolo.)
È anche certo che la barbarie e l’intolleranza in Europa erano molto più pronunciate che altrove: prima del XVIII secolo, era sicuramente meno pericoloso vivere sotto l’islam o il Buddha che nell’Europa cristiana.
E fuori dall’Europa gli europei non erano particolarmente illuminati, basti pensare alla sorte degli indiani d'America o degli aborigeni australiani, degli abitanti del Congo belga o dell’Africa Tedesca del Sudovest (l’odierna Namibia). E la barbarie e l’intolleranza europea proseguirono anche a Novecento inoltrato, come Auschwitz e i gulag dovrebbero ricordarci. Consiglio prudenza quando si invoca, con una certa arroganza, la tradizione dell’Illuminismo. E sono molto diffidente ogni volta che sento qualcuno parlare con orgoglio dei valori britannici, o francesi, o europei.

L’ipotesi della supremazia europea è stata sviluppata nel corso del XVIII secolo, quando ci si compiaceva delle conquiste intellettuali dell’Illuminismo, della sua razionalità e del suo trionfo sull’oscurantismo clericale. Questo sentimento di superiorità si è rafforzato nel XIX secolo, quando la supremazia europea poggiava su una base solida: lo sviluppo di una società capitalista industriale e tecnologica.
Peraltro, quelli che all’epoca parlavano della superiorità dell’Europa non parlavano di tutto il continente.

Si inventa sempre l’Europa che si desidera
Si inventa sempre l’Europa che si desidera. L’«Europa» vista come faro di civiltà, modello di modernità, comprendeva tutt’al più l’Europa occidentale. Non era l’Europa geografica che si estende dalla costa occidentale dell’Irlanda e dalla penisola iberica fino al Caucaso e a Costantinopoli, dai paesaggi ghiacciati dei Paesi scandinavi al clima più caldo della Sicilia.
Questa contrapposizione tra un Oriente e un Occidente astratti è di vecchia data e risale all’antichità, al mondo della Grecia antica e di Roma. Ma l’identificazione dell’«Europa» con l’Europa occidentale, e la concomitante visione negativa dell’Oriente, sono un traslato ricorrente dall’Illuminismo in poi.
Voltaire, nella sua Storia di Carlo XII (uno dei bestseller del XVIII secolo), dava per scontato, e non del tutto a torto, che i suoi lettori fossero quelli che vivevano in Europa occidentale, l’Europa civilizzata, e non nelle zone «desolate» e fredde del Nord, o nelle «regioni distanti» dell’Europa dell'est. Nella sua Storia dell’impero di Russia sotto Pietro il Grande, il grande pensatore illuminista sottolineava che i riformatori come lo zar Pietro il Grande non cercavano di imitare la Persia o la Turchia, ma cercavano un modello nella «nostra parte dell'Europa, dove i talenti si rendono eterni in ogni genere».

L’Occidente significava il progresso, la laicità e i diritti dell’uomo, e perfino i diritti delle donne. Montesquieu, nello Spirito delle leggi, dopo aver diviso i governi in repubblicano, monarchico e dispotico, conclude affermando che costumi come la poligamia confermano che è proprio in Asia «che il dispotismo è, per così dire, naturalizzato».
Alcuni esponenti delle classi dominanti nell’Impero Ottomano, in Cina e in Giappone erano d’accordo. Desideravano preservare la loro «anima», la loro cultura, la loro tradizione, ma volevano anche la modernità, nella convinzione che il favoloso «pacchetto» occidentale potesse essere smantellato nei suoi diversi elementi e che fosse possibile scegliere fra di essi come si scelgono le pietanze da un menù. D’altro canto, il loro fascino per l’Europa cominciò soltanto nel momento in cui l’Europa era diventata militarmente superiore, nel corso del XIX secolo, e minacciava la loro sopravvivenza.
Era una novità. Prima, l’Oriente guardava l’Occidente dall’alto in basso, o per meglio dire non si prendeva il disturbo di guardarlo, perché non aveva nulla da imparare dall’Occidente. L’Occidente, al contrario, almeno nel XVII e XVIII secolo, era affascinato dall’Estremo Oriente, e in particolare dalla Cina della dinastia Qing: da qui i giardini anglocinesi di Kew, di Potsdam, di Drottningholm, di Monaco di Baviera, di Tivoli (a Copenaghen), le porcellane e gli armadi laccati importati o imitati, gli artisti rococò che si ispiravano ai motivi decorativi cinesi, la «saggezza» cinese (c'è sempre molta fantasia in questo genere di culto) ammirata dai pensatori europei dell’epoca. Quella visione era costruita sulla base di resoconti che risalivano al XVII secolo ed erano stati scritti dai gesuiti, che erano andati in Asia per convertire i pagani e avevano scoperto la ricchezza, il gusto per la cultura e per l’arte, una burocrazia sbalorditiva e benevola e dirigenti tolleranti.
Poi tutto è cambiato.
Alla fine del XIX secolo gli imperatori Qing, a malincuore, decisero di abbracciare la modernità, e dunque l’Europa. Venne distribuita una lettera ai funzionari provinciali di quel vasto impero, che sollecitava proposte di riforme. La risposta di due governatori provinciali, Liu Kunyi e Zhang Zhidong, è particolarmente significativa:
«Tre cose sono essenziali per una nazione: la prima è il governo, la seconda la ricchezza, la terza la potenza […] Il modo migliore per ottenere un buon governo è riformare le istituzioni autoctone; ma per ottenere ricchezza e potenza bisogna adottare i metodi occidentali».
L’Est ormai guardava all’Ovest con paura e ammirazione.
Poi, molto più tardi, fu il turno dell'Europa di guardare verso il «suo» Ovest, cioè gli Stati Uniti, con paura e ammirazione. Ma quell'Europa era ancora l’Europa occidentale (chiaramente non l’Europa comunista).

L’integrazione europea e l’orientamento al mercato
Fu soprattutto la necessità di sviluppare un mercato più ampio di quelli nazionali che fece nascere la Comunità economica europea, come veniva chiamata allora. All’inizio era essenzialmente una piccola zona di libero scambio: sei Paesi, una minoranza degli abitanti del continente. Malgrado ciò, la Comunità divenne rapidamente, e anche imperfettamente, il fulcro dei sogni di unità per numerosi europei.
In alcuni casi, questi sogni erano quelli di un ritorno a una gloria molto lontana nel tempo. In altri casi, erano un modo per resistere e difendersi contro la potenza americana. In altri casi ancora, era soltanto un desiderio di prosperità. E per molti tutto questo voleva dire far parte di un progetto moderno ed evitare di essere messi da parte.

I Sei sono diventati Ventotto. Ogni tappa che conduceva dai Sei ai Ventotto veniva descritta come un passo verso l’unità europea. Naturalmente le cose sono molto più complicate di così. L’Europa dei Ventotto (ben presto Ventisette) è profondamente divisa, cosa che non sorprende se si considera che l’Europa non è mai esistita come entità politica unita. Nessun conquistatore, nessun Paese, è mai riuscito a imporre il suo dominio su tutti gli abitanti del nostro continente: non i Romani, non Carlo Magno, non Napoleone e non Hitler.
Le origini dell’Unione Europea riflettono questa disunione. Gli Stati membri hanno aderito per ragioni differenti. Per i britannici fu il successo economico della Comunità europea che finì per convincerli; i danesi e gli irlandesi entrarono contestualmente a Londra perché all’epoca le loro economie erano fortemente legate a quella del Regno Unito. La Grecia, la Spagna e il Portogallo fecero il loro ingresso per facilitare la rottura con un passato recente di dittature. Successivamente la Svezia, l’Austria e la Finlandia si aggiunsero agli altri per ragioni economiche, in buona parte. Dopo il 1991, i Paesi che erano stati comunisti avevano bisogno di rompere con il passato, e soprattutto speravano di acquisire il livello di prosperità dell’Occidente.

60 anni del Trattato di Roma

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Il fatto che l’ethos dominante sia orientato verso il mercato non deve sorprendere un osservatore della storia dell’integrazione europea. La sua forza motrice è sempre stata la soppressione delle barriere intraeconomiche e la creazione di un mercato unico a moneta unica. La legislazione sul welfare è sempre rimasta saldamente nelle mani degli Stati-nazione. Lo stesso dicasi per la fiscalità, principale strumento di decisione economica e protezione sociale.
Si può costruire un'identità europea? È opportuno farlo? Che cosa implicherebbe? Il solo modello che abbiamo a questo riguardo è la costruzione dell’identità nazionale, e questo ci riporta al XIX secolo, quando la storia, appena insediatasi nel mondo accademico, divenne una disciplina importante: la rivoluzione romantica l’aveva riposizionata come «narrazione maestra», un romanzo nazionale in cui i popoli potevano leggere la loro biografia. Gli eroi potevano ancora essere re e regine, ma solo in quanto rappresentanti del «genio» della nazione. Gli storici, che per secoli erano stati i lacchè dei sovrani, cronisti di menzogne, potevano ora acquisire un ruolo «democratico».
Gli storici britannici del XIX secolo presentavano una visione edulcorata e del tutto rassicurante dell’evoluzione della storia nazionale, come una successione di riforme intelligenti basate sul pragmatismo, un racconto di progressi costanti verso maggiore democrazia e maggiori diritti. Una classe dirigente illuminata, secondo la loro visione, aveva ceduto alla pressione popolare esattamente nel momento giusto, prima che le masse imboccassero la strada di una rivoluzione violenta. Contrariamente ai francesi, sempre rivoluzionari ma incapaci di creare uno Stato solido, agli italiani, confusi e incapaci, ai tedeschi militaristi, ai polacchi disperatamente romantici, i britannici avevano sempre fatto quello che bisognava fare e lo avevano fatto bene. Questo cliché banale domina ancora la visione britannica e ha giocato un ruolo importante nel recente referendum sulla Brexit.
Non è possibile scrivere per l’Europa l’equivalente di quello che furono i romanzi nazionali. Certo, c’è una mitologia del progresso e della missione civilizzatrice (che ignora i numerosi imprestiti culturali che ci vengono dall’Oriente, e in particolare dalla Cina, dall’India e dal Medio Oriente). Ma c’è anche una storia sanguinosa di guerre e genocidi.
Oggi, dopo aver conquistato la loro libertà professionale, gli storici non corrono il rischio di adattare i loro insegnamenti e i loro libri alle esigenze di un’«identità europea comune». Certo, sarebbe una buona cosa se gli europei avessero una maggiore percezione di condividere un destino comune, soprattutto perché la dissoluzione dell’Unione Europea sarebbe una catastrofe politica ed economica. Ma la stessa Unione Europea ha sempre avuto cura di aggiungere, ogni volta che si parlava di coesione e identità, che era necessario anche rispettare le identità nazionali esistenti.
Io non penso che un’identità europea possa essere insegnata. Non penso che si possa fare dell’Europa uno Stato-nazione, anche se la costruzione lenta e faticosa dell'Unione Europea è il risultato di maggior rilievo di tutta la storia continentale.

Il nostro presunto patrimonio comune
Ma non dimentichiamo che le conoscenze storiche della maggior parte delle persone non si fondano unicamente su quello che hanno imparato a scuola e all’università. Un tempo la storia si apprendeva anche dai ricordi deformati o inventati dei genitori e dei nonni: oggi le conoscenze storiche, più o meno incoerenti, si formano sulla base delle informazioni diffuse dai media, i giornali, in parte i libri (i romanzi storici) e soprattutto le serie televisive e i film.

Attualmente, la storia che viene insegnata nelle scuole della maggior parte dei Paesi europei di solito poggia su un pilastro fondamentale: la storia del proprio Paese. A questo pilastro si aggiunge un po’ di storia greca e romana, il nostro presunto patrimonio comune (un concetto inventato nel corso dei secoli precedenti); e poi si studiano una serie di avvenimenti maggiori (le Crociate, il viaggio di Cristoforo Colombo, la Rivoluzione Francese) e qualche punto di riferimento fondamentale, come il Rinascimento e l’Illuminismo. La prima metà del XX secolo è presente con le due guerre mondiali. La seconda metà è pressoché assente.
Quello che non viene insegnato è che gli europei non hanno scelto realmente la propria nazione. Sono diventati inglesi, e poi britannici, tedeschi, francesi, italiani e perfino belgi. Hanno delle identità regionali (scozzesi o gallesi, guasconi o bretoni, bavaresi o prussiani, siciliani o piemontesi) che avrebbero potuto essere identità nazionali se la storia avesse preso un’altra piega. Ma alla fine, grazie a uno Stato che ha regalato loro una burocrazia, un sistema scolastico, una lingua comune, delle istituzioni comuni, e grazie a guerre, inni nazionali, tornei sportivi, concorsi canori in eurovisione e così via, gli europei hanno imparato a identificarsi con un insieme specifico di istituzioni politiche che chiamiamo «Stati-nazione».
Consentitemi di immaginare uno scenario.
Immaginiamo che nel Regno Unito succeda qualcosa di terribile, per esempio una catastrofe economica, qualcosa che convincerebbe gli scozzesi, i gallesi e gli irlandesi che sarebbe meglio separarsi. D’altronde può succedere, quantomeno in Scozia.
Immaginiamo anche che la catastrofe sia talmente grave che altre regioni dell’Inghilterra decidono di diventare indipendenti, per esempio lo Yorkshire, il Lancashire o la Cornovaglia.
Oggi esiste un partito nazionalista in Cornovaglia, ma è considerato una barzelletta. Ma anche i nazionalisti scozzesi venivano considerati una barzelletta quarant’anni fa, e oggi non ne ride più nessuno.
Immaginiamo la Cornovaglia come nuovo Paese indipendente. Non è impossibile, considerando che la sua popolazione è più o meno la stessa del Lussemburgo (500mila abitanti) e la superficie è leggermente maggiore. Il nuovo Governo nazionalista comincerà immediatamente a costruire un’identità cornica e una cultura cornica. Attualmente, a quanto risulta, a parlare il cornico, l’antica lingua celtica della Cornovaglia, sono meno di 3mila persone, ma il nuovo governo nazionalista potrebbe costringere le scuole a insegnarlo. D’altronde il Governo britannico nel 2002, forse per compiacere l’elettorato locale, decise che il cornico poteva essere inserito nell’elenco delle lingue riconosciute dalla Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (l’Unione Europea promuove le identità regionali locali). Nel 2005 stanziò 80mila sterline per la promozione della lingua, l’equivalente del salario di due insegnanti.

Successivamente, il Governo della Cornovaglia potrebbe stabilire che la conoscenza della lingua «nazionale» è un requisito obbligatorio per lavorare alle dipendenze dello Stato. Potrebbe sovvenzionare un giornale in cornico (anche adesso uno dei giornali locali di tanto in tanto propone un articolo in cornico). Non esiste una letteratura cornica (tranne qualche testo del Medioevo), ma il nuovo Governo potrebbe «annettersi» dei personaggi letterari che hanno vissuto in Cornovaglia (ce ne sono parecchi, perché è una bella regione), oltre a leggende antiche come quella di Tristano e Isotta, che si svolge in Cornovaglia e su cui Wagner ha fondato la sua celebre opera, basandosi su un racconto di un altro tedesco, Gottfried von Strassburg, del XIII secolo.
Per costruire un nazionalismo del genere, tuttavia, è necessario avere uno Stato, un sistema fiscale, una polizia e un esercito. Se le cose andranno bene, si celebrerà una nuova età dell’oro per la Cornovaglia. Se andranno male, si potrà sempre dare la colpa agli inglesi.
L’Unione Europea non dispone di meccanismi come un sistema fiscale, una polizia e un esercito. È impossibile costruire l’identità europea usando gli stessi metodi usati per costruire l’identità francese, britannica o tedesca.

Il desiderio di un’Europa sociale

Al momento, lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un rigetto crescente verso i politici nazionali.
Il paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi dalla politica nazionale, guardino all’Unione Europea: invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionaliste.
Ma perché ci sono così tanti scontenti, o quantomeno delusi, considerando che gli europei non sono mai stati così ricchi e non hanno mai conosciuto un periodo così lungo di prosperità e pace?
Il progetto europeo non è riuscito a diventare un elemento centrale della vita politica perché l’Unione Europea avrebbe avuto bisogno di più poteri. Ma per acquisire più poteri avrebbe dovuto avere il sostegno della maggior parte degli europei, avrebbe dovuto conquistare i cuori e gli spiriti, hearts and minds. Ed è appunto questa l'impasse in cui si trova l’Unione.
Si era provato a dare all’Europa una Costituzione, nella speranza che potesse divenire una carta federatrice. Ma i problemi, al contrario si sono moltiplicati e la Costituzione è diventata un fattore di disunione.

Napoleone avrebbe detto che una Costituzione deve essere corta e oscura. La Costituzione europea, abortita e ormai dimenticata, metà del test napoleonico lo superava: era oscura, ma di certo non era corta. L’ambiguità è un’arma a doppio taglio: nel caso specifico era servita per unire quelli che volevano essere uniti e trovare qualcosa di positivo nel testo, ma fornì anche argomenti a quelli determinati a far naufragare il trattato costituzionale. È ciò che è successo con la vittoria del no nei referendum sull’adozione della Costituzione organizzati in Francia e in Olanda nel 2005. Il trattato di Lisbona ha ripreso gli elementi di fondo del progetto, ma si tratta di un accordo fra Paesi e non possiede la forza simbolica di una Costituzione.
Gli europei desideravano un’unione sempre più stretta? Evidentemente no. Desideravano un’Europa ancora più orientata verso il mercato? Probabilmente no. Desideravano un’Europa «sociale»? Sicuramente sì, e questo è normale, perché praticamente nessuno desidera pensioni basse, cure sanitarie costose, orari di lavoro lunghi e nessun aiuto per le famiglie giovani.
Tuttavia, non si può negare che l’etica della Costituzione (come della maggior parte delle iniziative dell'Ue) corrispondeva a un’Europa «dei mercati», più che a un'Europa «sociale». Tutti i documenti europei, la Costituzione e i trattati, erano, inevitabilmente, un compromesso che riflette una realtà politica, un equilibrio determinato da forze dove l’Europa sociale è in posizione di debolezza.
È molto difficile, quindi, raggiungere un compromesso su questioni «interne»; non si riesce a raggiungerlo nemmeno sulla politica estera, dove non c’è una posizione europea comune, o quando c’è risulta inefficace.

Incapaci di vedere al di là del confine
Sui principali temi internazionali non esiste una posizione europea comune che faccia da contrappeso agli Stati Uniti, soprattutto ora che l’inquilino della Casa Bianca si chiama Donald Trump. Non esistono iniziative europee uniche, non esistono soluzioni europee uniche. Nessuno si rivolge all’Europa per sapere cosa fare.

Inoltre, gli europei non sanno molto gli uni degli altri. Non conoscono nemmeno le canzoni di musica leggera, i libri più venduti o i programmi televisivi degli altri Paesi. Il solo Paese che ogni europeo conosce altrettanto bene del proprio sono gli Stati Uniti. Contribuiscono a ciò i film, i romanzi, le canzoni, ma anche i media giocano un ruolo: le elezioni nei Paesi europei sono quasi ignorate dai mezzi di informazione degli altri Stati (anche se la Francia e la Gran Bretagna una certa attenzione la ricevono), mentre le elezioni americane sono sistematicamente esaminate, discusse, dissezionate e commentate. Questo livello di attenzione è largamente giustificato: alla maggior parte di noi, per ragioni ovvie, interessa di più chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti che chi sarà il primo ministro di tutti gli altri Paesi membri dell’Unione Europea. E oggi più che mai, con Trump presidente, sarebbe essenziale che l’Europa fosse unità. Ma non lo è.
Un giovane belga sa qualcosa di Abraham Lincoln, George Washington, Martin Luther King, ma pochissimi giovani americani sanno anche soltanto dove si trovi il Belgio, e la maggior parte di loro non ha mai sentito parlare di Goethe, di Victor Hugo o di Dante Alighieri.
Esiste naturalmente una classe internazionale di intellettuali cosmopoliti, che parlano diverse lingue (in particolare l'inglese), viaggiano e hanno amici in diversi continenti, con cui condividono molte conoscenze. Sono l’equivalente degli eruditi del Medioevo che avevano in comune una religione (il cristianesimo), una lingua (il latino) e una cultura (la cultura classica), mentre la maggior parte degli europei non sapeva leggere e scrivere ed era capace a malapena di guardare al di là del proprio villaggio.
Oggi questa classe internazionale, anche se certamente più numerosa degli intellettuali cosmopoliti del Medioevo, è una minoranza. Gli altri sono ancora rinchiusi nel loro villaggio, con l’unica differenza che ora il villaggio è lo Stato-nazione. La prova si può vedere nel successo di popolari giochi televisivi come Chi vuol essere milionario?. Il gioco, nato originariamente in Gran Bretagna, si è esteso a un centinaio di Paesi diventando il quiz televisivo più internazionale di tutti i tempi. Il format è sempre lo stesso: le domande sono in ordine di difficoltà crescente e i concorrenti, quando non riescono a rispondere, hanno una o due possibilità di telefonare a un amico o domandare al pubblico. Guardando questo programma si osserva che i concorrenti sono gente «ordinaria», non professori universitari (che hanno troppa paura di andare incontro a un’umiliazione pubblica), ma informatici, professori di liceo, segretarie e così via.
Il gioco non potrebbe funzionare se le domande non fossero adattate alle culture nazionali, perché esistono pochissime conoscenze che siano realmente globali. Per esempio la domanda «Chi ha scritto I promessi sposi?» in Italia sarebbe elementare, ma sarebbe di elevata difficoltà non soltanto in Illinois, ma anche in Francia o in Inghilterra, dove Manzoni è pressoché sconosciuto.
I personaggi conosciuti ovunque sono le celebrità della cultura popolare internazionale: certi cantanti, certi attori e certi politici, di solito americani.

Prove recenti di questa ignoranza della cultura dei Paesi vicini le fornisce un'indagine condotta nel 2008 dal ministero della Cultura francese (a cui ho partecipato). Lo scopo dell'indagine era stabilire che cosa sapevano i tedeschi, gli italiani e i francesi delle altre culture vicine (dove la cultura era definita come il genere di conoscenze che si imparano a scuola). I risultati sono estremamente allarmanti. Alla richiesta di citare due uomini che hanno avuto un impatto significativo sulla storia della Germania prima del 1900, il 70 per cento degli italiani e il 72 per cento dei francesi non hanno saputo fornire neanche una risposta: nemmeno Bismarck; il 7 per cento ha citato Hitler, che nel 1900 aveva soltanto undici anni! Il 70 per cento dei francesi e il 63 per cento dei tedeschi non sono in grado di menzionare un solo protagonista della storia italiana prima del 1900: neppure Garibaldi. La Francia va meglio grazie a Napoleone, che è citato da un terzo degli italiani e dei tedeschi, ma il 32 per cento dei tedeschi e il 40 per cento degli italiani non riuscivano a ricordarsi di un solo personaggio storico francese. (Altrove va ancora peggio: il 12 per cento degli adulti americani identifica Giovanna d'Arco – Joan of Arc – come la moglie di Noè, per via di Noah's Ark, cioè l'Arca di Noè in inglese.)
Se siete un monumento, vi conviene essere pendente: la torre di Pisa era l’edificio italiano più conosciuto. Solo il 10 per cento dei francesi sapeva che Dante è l’autore della Divina commedia, anche se la maggior parte degli europei probabilmente ha sentito parlare di Pinocchio (in gran parte grazie a Walt Disney). I partiti comunisti di Francia e Italia per molto tempo sono stati i partiti comunisti più forti dell’Europa occidentale, ma il loro fallimento è evidente: solo il 33 per cento degli italiani e il 16 per cento dei francesi erano in grado di identificare Karl Marx come l’autore del Capitale.

Un’Europa degli orticelli nazionali
Potremmo continuare con queste statistiche penose, ma il fatto è che de Gaulle aveva ragione: l’Europa in realtà è un’Europa delle patrie. Tutti conoscono un po' il loro orticello nazionale, ma non quello degli altri. Non è perché le persone sono «ignoranti», ma perché il meccanismo di rafforzamento culturale è dominato quasi completamente dallo Stato-nazione, sia che si parli dei mezzi di informazione sia che si parli della scuola. Ci sono numerose «piccole» eccezioni a questa carenza di conoscenze mondiali, almeno nell’ambito della cultura popolare, e succede soprattutto quando si parla della cultura popolare inglese: tutti conoscono i Beatles, i Rolling Stones e Harry Potter. Tintin è mondiale, anche se non tutti sanno che il suo autore è belga. Ma gli Stati Uniti restano in ogni caso il solo Paese capace di esportare gran parte della propria produzione culturale, forse perché non hanno una vera e propria cultura nazionale (cosa facilitata dal fatto che la loro cultura, essendo terra di immigrati, è un miscuglio di tante culture diverse).

Dunque non esiste una cultura europea comune, non esiste uno Stato sociale europeo, non esiste un esercito europeo, non esiste un patriottismo europeo. In queste condizioni non ci possono essere piani ambiziosi per l’Europa, nessuna bacchetta magica: solo il tentativo difficile di stabilire regole di coesistenza.
E l’Europa di oggi è sempre meno «sociale». I Paesi dove il welfare è limitato (cioè la maggior parte dei nuovi membri) sanno che il loro vantaggio competitivo risiede in salari bassi, poche tasse e poche indennità sociali. Le disuguaglianze sociali tra i diversi Stati membri rimangono dunque un elemento costitutivo dell’Unione Europea.
C'è molto di «sociale» in Europa, ma avviene a livello dei singoli Stati membri, in particolare quelli di più vecchia data. L'Europa sociale, infatti, è materia esclusiva della politica nazionale. La politica sociale rafforza l’identità svedese, danese, francese o tedesca, ma serve a poco per l’identità europea.

«Identità europea», come molti altri concetti nebulosi di cui è quasi impossibile definire il senso, è un’espressione calorosa e confortante. Quasi tutti possono essere europei più un’altra cosa. Solo gli ultranazionalisti temono l’identità europea. E sappiamo tutti dove ha condotto il nazionalismo l’Europa. L’identità europea evoca quindi un processo in cui l’Europa volta le spalle a un passato sinistro e guarda verso un avvenire di coesistenza pacifica tra popoli che mantengono le loro lingue e gli aspetti più gradevoli della loro identità nazionale.
Ma tutto questo ora è ancora più in pericolo, e soprattutto per colpa della Gran Bretagna.
I partiti politici, accusati costantemente di non riuscire a produrre risultati, hanno la tendenza a dare la colpa all’Unione Europea. Nessuno ha praticato quest’arte meglio dei due grandi partiti britannici, i conservatori e i laburisti, che hanno trovato ben poco di positivo da dire riguardo all’Unione Europea negli ultimi quarant’anni.

Buona fortuna, Europa!
La Gran Bretagna ha «raggiunto» l’Europa più di quarant’anni fa, ma non ha mai veramente accettato il progetto europeo. Non ha mai pensato che fosse l’inizio di una nuova era, che l’Unione sarebbe diventata sempre più solida, sempre più stretta. Non c'era miraggio romantico, non c'era visione.
La Gran Bretagna entrò in Europa, nel 1973, perché riteneva che fosse nel suo interesse economico, che fosse un bene per i commerci, e questo sentimento nel 1975 (in occasione del referendum) era accettato da due terzi dell’elettorato.

In virtù di questa visione ristrettissima di quello che poteva essere l’Europa, condivisa da tutti i primi ministri dopo Edward Heath (l’unico vero europeista), da Harold Wilson a Jim Callaghan, da Margaret Thatcher a John Major, da Tony Blair a Gordon Brown, ogni passaggio verso una maggiore integrazione è stato bloccato. I britannici non hanno mai desiderato realmente approfondire l’unione. Volevano un’unione economica, ma a patto che la Ue rimanesse un nano politico. Hanno accettato con entusiasmo tutti i nuovi membri perché era sempre meglio allargare che approfondire.
La Gran Bretagna ha limitato il trattato di Maastricht a un mercato unico. Ha quasi applaudito quando i trattati di Amsterdam e di Nizza, e l’accordo costituzionale, si sono risolti in nulla o hanno cambiato poco. Ha ricercato costantemente deroghe, trattamenti speciali. I britannici hanno partecipato alla stesura delle regole relative all’euro, ma hanno contribuito a rendere l’euro debole, con pochi controlli. Hanno perfino cercato di bloccare la democratizzazione dell’Unione Europea e il rafforzamento del Parlamento europeo.

La débâcle sull'Europa, la Brexit, è stata imputata ai lavoratori scontenti, ai perdenti della società, agli abitanti della provincia, ai ceti medio-bassi, agli elettori ignoranti che hanno creduto alle frottole che raccontavano i sostenitori della Brexit sulla manna che sarebbe piovuta dal cielo per il Regno Unito una volta liberati dalla tirannia dei burocrati di Bruxelles, sulla storia che saremmo stati liberi, di nuovo padroni in casa nostra e così via.
In realtà, la responsabilità va ascritta a quei ceti politici che si spacciano per colti e intelligenti, e soprattutto al Governo in carica dal 2010 al 2015, e più ancora al primo ministro David Cameron, che per risolvere un problema interno al suo partito ha condotto il Paese e forse l’Europa verso un precipizio.
La Gran Bretagna è tutta sola e l’Europa è più disunita che mai; e tutto questo nel momento in cui il mondo deve fare i conti con Donald Trump. Buona fortuna, Europa!
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Testo della Lectio tenuta da Donald Sassoon all’Académie Royale de Belgique in vista del 60° anniversario dei Trattati di Roma, che cade il25 marzo 2017

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