Evadere negli anni di piombo
di Gianluigi Simonetti
6' di lettura
Uno sguardo ai temi preferiti dalla narrativa italiana degli ultimi vent’anni ci ha spinto, la settimana scorsa, nelle periferie italiane, e romane in particolare. Abbiamo identificato un gusto deciso per paesaggi, oggetti e personaggi marginali, «bassi», a rapida presa sociologica e civile, in equilibrio tra due spinte solo apparentemente contraddittorie: il bisogno di realismo, che è tipico di una letteratura che vuole impegnarsi, e un bisogno di esotismo, che è tipico invece di una letteratura che vuole evadere. Molta narrativa «di borgata» realizza così un modello appagante di realismo esotico, o esotismo realistico, che va incontro a un romanzo che sempre più spesso scommette sull'energia dei luoghi e degli scenari piuttosto che sui giochi con la durata che tradizionalmente aveva prediletto. Spatial turn è la formula con cui si allude oggi a quella sensibilità estetica che valorizza lo spazio piuttosto che il tempo; proprio lo spatial turn contribuisce a spiegare il successo di tanti libri recenti costruiti non tanto sulle trasformazioni dei personaggi nel tempo, quanto sul fascino statico di un paesaggio. Che è poi quanto accomuna i romanzi che hanno vinto quest’anno i nostri due maggiori premi letterari: Le otto montagne di Cognetti e L’arminuta di Di Pietrantonio.
La preferenza accordata a un esotismo articolato nello spazio non esime però dal ricorso a un esotismo articolato nel tempo: le due cose possono andare insieme, come dimostra tra l'altro, sul piano dei generi, il perdurante successo del romanzo storico, o del fantasy. Ma continuando a parlare di temi, e limitandosi a due esempi, va sottolineato che se la scoperta della borgata ha spesso obbedito al bisogno di evasione nella Geografia (fisica e sociale), il bisogno di evasione nella Storia è stato soddisfatto più volte dalla riscoperta degli anni di piombo. L’ultimo romanzo sul caso Moro, Il segreto, è uscito giovedì scorso (anche se l’autore, Antonio Ferrari, lo ha scritto nell’81).
Come la periferia, anche la lotta armata è spunto che dialoga con varie forme dominanti della letteratura circostante. Una di queste, l'abbiamo visto, è l'imperativo dell'intensità. In un'epoca e in una realtà come le nostre, abituate a esperienze deboli e a politiche moderate, si sviluppa la tendenza a compensare con racconti fatti di esperienze intense e politicamente radicali. Più rimpiazziamo l'agire col vedere, più chiediamo azione alle immagini dell'arte; in questo senso la lotta armata è surrogato validissimo, perché rappresenta una delle ultime esperienze collettive forti della nostra storia recente. Il gesto terroristico appaga il nostro desiderio estetico di intensità e di azione perché è sanguinario e senza appello, ma anche perché è (stato) reale: affonda in una pagina drammatica, appassionata e molto identitaria del nostro Novecento. Ed ecco un secondo motivo di successo: in un'epoca che ha fame di realtà, cioè di rielaborazioni narrative di eventi realmente accaduti, la lotta armata squaderna un repertorio di storie vere. Non a caso il racconto della lotta armata diventa un filone della nostra narrativa quando i protagonisti prendono direttamente la parola. Scrittori «che c'erano» e che raccontano in prima persona, assecondando una terza tendenza generale di cui abbiamo avuto modo di discutere: le «scritture del sé».
Queste e altre circostanze fanno sì che la lotta armata diventi un tema di successo letterario dal Duemila in poi. Durante gli anni di piombo avevano parlato di terrorismo soprattutto i giornalisti, gli storici, i sociologi - e, al cinema, i registi di genere. Gli scrittori italiani allora affermati, tranne Sciascia e Balestrini, si misurano col tema in modo timido e spesso metaforico: negli anni Settanta concentrandosi sulle ferite inflitte all’ordine borghese (Ginzburg, Moravia), a partire dagli anni Ottanta travestendo allegoricamente lo scontro politico e generazionale: così Tabucchi, Malerba, Consolo e Eco (Il nome della rosa, con gli eretici dolciniani al posto dei brigatisti rossi). I pochissimi che ne scrivono direttamente lo fanno nel registro del grottesco, che è un’altra forma di camuffamento (Abitare il vento di Vassalli, La troga di Rugarli). Inevitabilmente, i libri che descrivono meglio e in diretta la violenza politica sono opere morbose e idiosincratiche, ad alto tasso di visionarietà: due romanzi destinati a restare inediti fino agli anni Novanta – Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise – più due straordinarie raccolte di poesia: Documento di Amelia Rosselli e Somiglianze di Milo De Angelis, entrambe del ’76.
Dopo il crollo del Muro di Berlino, a guerra finita e a rivoluzione ufficialmente archiviata, cominciano a scrivere i reduci. Un decennio dopo, alla fine degli anni Novanta, le memorie dei terroristi sono già un bel po’: a Curcio, Moretti, Franceschini e Faranda si aggiungeranno Braghetti, Gallinari, Segio e molti altri ancora. Libri che vanno inconsciamente incontro alla moda, che comincia a diffondersi, delle scritture non fiction, ricche di effetti di realtà e a dominante soggettiva. La maggior parte di queste memorie sono infatti libri-intervista, o «autobiografia pilotate», che descrivono quasi sempre una conversione del terrorista: dalla crisi di identità al delitto, dal riconoscimento della colpa all’espiazione finale, e da questa alla conquista di nuova identità. A questo prezzo la rimozione viene meno, l’autocensura sostituisce la censura. Resta il fatto che chi ha saputo sottrarsi almeno in parte a questo schema ha scritto le cose più riuscite e interessanti: ad esempio Enrico Fenzi, con Armi e bagagli, recentemente ristampato per la quarta volta.
Tra i pochi a preferire la fantasia al ricordo figura uno dei reduci che per più tempo è rimasto in libertà: Cesare Battisti. Proprio il suo caso è esemplare della transizione a una fase ulteriore, in cui la memorialistica si confronta con l'invenzione romanzesca. Dalla metà degli anni Novanta la testimonianza sugli anni di piombo si contamina col noir o col giallo, che in quella fase diventano generi di traino della nostra industria editoriale: i nomi di punta del settore sono Camilleri, Carofiglio, Faletti, ma su un versante più impegnato vanno ricordati Carlotto, De Cataldo, Lucarelli, Dazieri, Biondillo, De Michele, il primo Genna e altri ancora. Dall’inizio degli anni Zero – tra crollo delle torri gemelle e G8 genovese, l’assassinio di D’Antona e quello di Biagi - i libri sul terrorismo diventano una valanga: il confine tra fiction e non fiction e tra invenzione e inchiesta si erode volentieri, mentre le trame cominciano a svilupparsi nel presente piuttosto che nel passato, alludendo a complotti sempre più arzigogolati. Al fascino dell’azione si somma quello della ricostruzione storica e giornalistica, all’energia della tragedia politica si aggiunge quella del romanzo di consumo, costruito sulle regole del racconto del mistero. Naturalmente con i limiti che di solito comporta l'eccessiva fedeltà a quelle regole: rappresentazioni manichee o a tesi, antagonisti privi di spessore, vittime ridotte a bersagli, utili solo a far andare avanti la storia. Quando gli stessi ex militanti del partito armato cominciano a scrivere i loro bravi noir - non solo Battisti, ma anche Franceschini e Morucci - è chiaro che il cerchio si è chiuso: la lotta armata non è più materia di silenzi o di metafore, ma ricco serbatoio di intrighi da delibare negli schemi rassicuranti del giallo. La critica comincia a registrarlo (prima all’estero, poi da noi): sull’argomento arrivano, tra gli altri, gli studi di Tabacco, Donnarumma, Vitello e Paolin.
E gli scrittori, per così dire, «veri»? Cos'è successo fuori dai recinti, a un certo punto comunicanti, della testimonianza dei reduci e del romanzo di genere? Molti hanno fatto ricorso a schemi psicoanalitici, soprattutto edipici, mescolando conflitto di classe e conflitti familiari: i libri di Villalta, Sartori, Doninelli, Arpaia; lo Spasimo di Palermo di Consolo, Tristano muore di Tabucchi, La scoperta dell’alba di Veltroni. Altri hanno preferito impegnarsi in una «descrizione di descrizione» della lotta armata, ossessionata dal filtro mediatico. Protagonista, qui, non è la violenza dell'epoca, ma le sue immagini più memorabili, viste in tv, sui giornali, in rete: un repertorio condiviso, a tratti spettacolare, sempre frammentario. Così nei libri di Ballestra, Culicchia e ancora Veltroni, nei quali è evidente, oltre alla disperazione di fondo, la nostalgia vintage per gli anni Settanta. Così, con maggior sottigliezza, nel Tempo materiale di Vasta, in gran parte giocato sul rapporto tra linguaggio pop e eversione di massa; e su una trascrizione deliberatamente surreale della realtà del caso Moro. Poi Luca Rastello, un caso a parte. Nel suo Piove all’insù, del 2006, né nostalgia né Edipo: un padre in carne e ossa, una memoria intermittente, una costruzione narrativa intelligente e sottile. Per dribblare i cliché mette insieme la fantascienza e la cronaca, il presente e il passato, l'allucinazione e l'esattezza. E l'io e il noi: parla a nome di una generazione di ribelli, ne vede con rigore tutti i limiti. «Uno dei nostri giornali ora titola così: La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. È il pensiero più lucido di quella stagione. Ma pensare la fine con lucidità è biologicamente impossibile (…). Inadatti alla rivoluzione, perché il luogo della rivoluzione è l'infinito (…), noi passeremo dal potere infinito della nostra adolescenza carnale all'infinita frustrazione che muove al consumo»..
Ottavo di una serie di articoli. I precedenti sono stati pubblicati il 30 luglio, il 6, 13, 20, 27, 27 agosto, il 3 e il 10 settembre
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