sbagliando si impara

Evitare le incomprensioni grazie alla cultura d’azienda

Servono sistemi di engagement, in cui la cultura aziendale sia narrata e condivisa, per creare un substrato contestuale a cui tutti possano riferirsi

di Daniele Ciacci *

(AFP)

3' di lettura

Quando comunichiamo quotidianamente non ci facciamo troppo caso, eppure ci appoggiamo molto spesso al contesto per generare senso nella narrazione. È più facile a farsi che a dirsi, per cui esemplifico: mi trovo fuori dall’ufficio, sul marciapiede, e sto fumando una sigaretta prima di entrare. Si avvicina un ragazzo, e mi chiede: «Scusa, mi dai l’accendino?». Acconsento per educazione. «Grazie» mi dice, prende il mio accendino e se ne va.

La situazione è paradossale, ma esemplificativa di una modalità di comunicazione semplice. Estrapolato dal contesto, il modo di porsi del mio interlocutore è tutto meno che ambiguo. Effettivamente, mi ha chiesto di “dargli” l'accendino: non di prestarglielo per qualche momento, né tantomeno mi ha detto che l’avrebbe usato per accendersi a sua volta una sigaretta. Anche il dizionario è contro di me: «Fondamentalmente significa far sì che uno abbia una cosa, trasferire ad altra persona […], e si dice sia di cose materiali sia di cose astratte» . Treccani docet.

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Ogni comunicazione è un’interazione. Questo termine è ormai abusato dopo l’avvento dei social media, spesso è ridotta a un like su un post di Facebook, o ad un commento sotto una foto su Instagram. È corretto, ma parziale. Parlare con un collega, suonare il clacson nel traffico, tamburellare le dita sulla scrivania: sono tutte interazioni. Torniamo al dizionario: «influenza reciproca tra due fenomeni, elementi, persone ecc.». Parlare con un collega prevede una risposta, suonare il clacson dovrebbe invitare a snellire il traffico, il movimento delle dita può indicare impazienza.

In questi casi, da che cosa si evince il senso della comunicazione? Dal contesto. È una consuetudine ormai abusata rendere sinonimi i verbi “dare” e “prestare”, così come suonare il clacson quando non c’è coda a un semaforo può riportare a significati diversi rispetto a quando si è imbottigliati (per salutare un passante, per errore, ecc.). Un’interazione può portare un senso diverso al variare del contesto. È una questione di deduzione o, semplificando decenni di studio linguistico, di inferenza. Dal contesto possiamo dedurre il significato di alcune interazioni che altrimenti risulterebbero indefinibili.

L’inferenza fa questo, ed è molto comoda. Pensateci: se ogni volta dovessimo esprimere verbalmente il substrato culturale in cui sorge l’interazione, ogni conversazione durerebbe ore. Addurre ad inferenze è la direzione verso cui va la lingua, poiché la lingua si evolve secondo la legge del risparmio. Il digitale ha evidenziato questa meccanica: senza l’inferenza non esisterebbero i meme, ad esempio. Ma ne ha anche esasperato il limite più evidente: se il contesto non è chiaro, non è condiviso e non è trasparente, si generano incomprensioni.

Un esempio: mia madre mi scrive su WhatsApp un papiro, e io le rispondo con un semplice “ok”. La prima contro-risposta sarà un: “Tutto bene?” o un “Sei arrabbiato?”. L’inferenza genera incomprensioni, ma nel peggiore dei casi può generare stereotipi. Mi raccontano che, in alcune aziende, se un impiegato esce alle 19 viene deriso perché “fa mezza giornata”, additandogli la colpa di una certa pigrizia professionale. Questa particolare presa per i fondelli si genera se nell’ambiente si è abituati a lavorare ben oltre l’orario indicato da contratto, dove spesso i flussi di lavoro portano a considerare l’emergenza è una costante. In altri contesti, invece, la stessa azione non avrebbe portato nessuna conseguenza.

Perché? Esiste un “tasso di pigrizia” che può essere calcolato e condiviso, entro cui tutti possono definire l’altrui indolenza? Ovviamente no. Insomma, l’inferenza può generare stereotipi: di genere, di età, o addirittura razziali. E il pericolo, per le aziende, è dietro l’angolo. Il contesto varia velocemente e viene dato per scontato. Eppure, proprio in questa condizione di “omertà” linguistica è più facile usare l’inferenza, riprendendo alcune etichette già assodate.

Spesso è questo a causare, nella comunicazione tra persone in un’azienda, le interferenze più frequenti. Per ridurre questo problema, bisogna lavorare su sistemi di engagement in cui la cultura aziendale sia narrata e condivisa, così da creare quel substrato contestuale a cui tutti possano tornare senza generare incomprensioni. Ed evitare, per chiudere il cerchio, che ti rubino l’accendino fuori dall’ufficio.

* Consulente di Newton S.p.A.

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