Exxon e Chevron più forti e più lontane dall’Europa: focus è sugli Usa e sui fossili
Dopo le fusioni annunciate dai big d’oltreoceano il consolidamento nel settore dell’Oil&Gas potrebbe proseguire. Ma il divario con le strategie delle Major europee aumenta
3' di lettura
Le due maxi fusioni annunciate da ExxonMobil e Chevron – operazioni dal valore complessivo di 113 miliardi di dollari, come non se ne vedevano da un quarto di secolo nell’industria petrolifera – aprono la strada ad un probabile ulteriore consolidamento nel settore.La febbre da M&A stava già salendo da mesi, soprattutto al di là dell’Oceano Atlantico. E qualche analista ritiene che ora anche l’Europa possa esserne contagiata.
È tornata a circolare soprattutto l’ipotesi di un matrimonio tra Bp e Shell, scenario che a dire il vero riaffiora periodicamente da una ventina d’anni e che oggi suggestiona in modo particolare, complici le tempestose dimissioni del ceo di Bp, Bernard Looney, la nuova guida di Shell (da gennaio al timone c’è Wael Sawan) e il parziale ripensamento delle strategie da parte di entrambe le Major, penalizzate in Borsa per l’eccessivo entusiasmo con cui – almeno a parole – avevano abbracciato la causa della decarbonizzazione.
Ora che i colossi Usa diventano ancora più grandi e forti, le compagnie europee «rischiano di restare indietro e un merger avrebbe molto senso», afferma Arjun Murti di Veriten, analista ex Goldman Sachs, divento famoso all’inizio del millennio per essere stato tra i primi a prevedere che il petrolio potesse superare 100 dollari al barile.
Bp, Shell e le altre Major del Vecchio continente non sembrano comunque pronte a ricalcare le orme dei concorrenti d’oltreoceano. E anche l’ipotesi che qualche compagnia potesse diventare preda dei big americani ha perso quota: Bp, considerata l’obiettivo più probabile di un takeover, è scivolata in Borsa subito dopo la notizia di un’acquisizione importante anche da parte di Chevron, quella di Hess per 53 miliardi di dollari, annunciata appena due settimane dopo l’operazione da 60 miliardi di Exxon, che invece rileva Pioneer Natural Resources.
I colossi Usa probabilmente non hanno esaurito l’appetito e di certo nono sono a corto di munizioni: entrambe hanno usato solo “carta”, ovvero azioni, per i deal appena annunciati e in cassa hanno montagne di contante (ben 29,5 miliardi per Exxon a fine giugno e 9,3 miliardi per Chevron).
Il punto è che le due Major – ora è più evidente che mai – vanno in una direzione diversa rispetto ai concorrenti europei.Le ultime acquisizioni da un lato le portano a rafforzarsi in patria, consolidando il predominio sulle aree di shale oil e shale gas, cuore della potenza energetica degli Stati Uniti: Exxon e Chevron insieme a Pioneer ed Hess raggiungono una capacità di produzione di 9,5 milioni di barili al giorno equivalenti petrolio. L’Arabia Saudita, complici i tagli Opec+, oggi non estrae più di 9 milioni di barili al giorno di greggio.
Ma lo shale oil è solo un pezzo della strategia, tant’è che Chevron grazie a Hess entra anche in Guyana, nuova frontiera del petrolio dalle potenzialità straordinarie, in cui Exxon era già in prima linea.
I big americani, a differenza degli europei, scommettono forte e senza alcuna inibizione sul vecchio core business degli idrocarburi, di nuovo molto redditizio. E sembrano non badare alle previsioni di un rapido tramonto dei fossili: pronostici come quelle dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che martedì 24 nel World Energy Outlook è diventata ancora più ottimista sull’avanzata delle rinnovabili, al punto da affermare che petrolio, gas e carbone arriveranno tutti al picco della domanda entro il 2030, anche se il mondo non adotterà politiche più ambiziose di quelle già annunciate.
loading...