editoria

«Facciamo coesistere carta e web»

di Paolo Bricco

5' di lettura

Per un paradosso della storia, in Italia – Paese senza una vera borghesia nazionale – in realtà, di borghesie, ce ne sono state tante. Irene Enriques, capoazienda della Zanichelli, è erede di una famiglia che rappresenta bene una particolare specie novecentesca: positivista nel metodo di conoscenza del mondo, anti-moraviana nello spirito, non fallita nell’impresa e non parassitaria verso lo Stato e la pubblica amministrazione, perdente nel bilancio complessivo di un sistema nazionale in cui altre tribù – anno dopo anno, decennio dopo decennio – hanno preso il sopravvento.

«È stato insieme difficile e facile crescere in una famiglia come la mia», racconta Irene, 50 anni e il fare simpatico e trattenuto della persona timida che esercita la responsabilità senza istinti di sopraffazione gerarchica o pulsioni padronali.

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Da Leonida, Irene - ultima generazione insieme al fratello Luca, giurista, e ai cugini Giovanni e Ferrante - ordina un piatto di gnocchi al sugo rosso e una insalata verde, mentre io prendo una bistecca ai funghi e una terrina di pomodori. Acqua minerale gassata per entrambi. In questa trattoria di Bologna, che si trova in un vicolo che dà su Strada Maggiore, capita che pranzino gli editori del Mulino. L’ultima volta che ho mangiato qui - qualche anno fa - pochi tavoli più in là erano seduti Romano Prodi e Marco Tronchetti Provera.

Bologna, Roma, Torino, Ivrea, Milano e di nuovo Bologna. Gli Enriques hanno fatto parte di quel sistema di famiglie del Nord Italia – prospere ma con più investimenti che liquidità, devote alla cultura più che al desiderio di arricchirsi, abili e dure negli affari ma con una morale non scevra di moralismi – che hanno segnato una parte minoritaria delle classi e dei ceti dirigenti italiani. Gli intellettuali un poco folli e gli industriali irrequieti di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, i commercianti e i nouveaux entrepreneurs dell’Adalgisa di Carlo Emilio Gadda e i volti vitali, felici e tristi dei quadri di Carlo Levi: sono tutti morti, o quasi.

Nell’arco di un secolo la parabola degli Enriques mostra quello che è stato, quello che non è stato e quello che poteva essere. Spiega Irene, che quasi con timidezza prova a raccontare di sé e dei suoi maggiori, riconoscendo la valenza simbolica della sua famiglia: «La radice profonda della mia famiglia è culturale. In particolare, ci sono sempre stati due noccioli duri intellettuali: la giurisprudenza e la matematica». Il fratello Luca – già commissario Consob e oggi docente di corporate law a Oxford – appartiene al primo nocciolo duro. «Quando, a vent’anni – dice quasi con una punta di imbarazzo Irene – iniziai senza convinzione la facoltà di legge e poi dopo decisi di cambiare, agli occhi della famiglia salvai la faccia iscrivendomi a matematica».

Nata nel 1967, Irene è stata bambina nella Bologna degli anni Settanta («Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, viene ucciso l’11 marzo 1977 a pochi passi dalla casa editrice, ricordo mio padre che porta me e mio fratello Luca in giro in macchina in una Bologna deserta e con camionette che sembrano piccoli carrarmati e che, a un certo punto, ci dice: “state giù”»). Poi, è stata adolescente nella Bologna degli anni Ottanta, l’età del riflusso. Nel 1996 si è sposata con Özalp Babaoğlu, figlio di diplomatici della Turchia kemalista che, dopo il dottorato di ricerca a Berkeley e l’insegnamento a Cornell, è diventato uno dei padri del sistema Unix e dell’Open Industry Standards e che, oggi, insegna informatica all’università di Bologna. Irene e Özalp hanno due figli: Nicola, matricola universitaria a fisica, e Emilia, che l’anno prossimo farà la maturità scientifica.

L’albero genealogico di Irene dispiega il bisnonno matematico Federigo Enriques, professore universitario di geometria fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento a Bologna e, dal 1921, a Roma; il nonno ingegnere Giovanni Enriques – amico da studente dei ragazzi di Via Panisperna, in particolare del futuro Premio Nobel Emilio Segrè – dal 1930 al 1953 è collaboratore di Adriano Olivetti e propugnatore della internazionalizzazione dell’impresa di Ivrea. Il papà Federico, laureato in legge, e lo zio Lorenzo, in fisica, sono stati entrambi impegnati in Zanichelli e tuttora si alternano alla presidenza della società.

Lo spirito del Novecento si è incarnato in questa famiglia in almeno due forme: la cultura scientifica e politecnica di stampo europeo, con il portato di razionalismo scientista e di magnifiche sorti e progressive, e la cultura industriale, che ha consentito ad un’Italia agricola e fatta da piccoli mercati locali – per dirla alla Luigi Einaudi – di approdare a una industrializzazione tecnologicamente avanzata – come nel caso della Olivetti – e poi allo sviluppo – fra registro classico, scolarizzazione di massa e organizzazione di impresa - della Zanichelli.

Scienze esatte e sistema industriale: due cuori del Novecento occidentale. Che, oggi, sembrano in parte atrofizzati e in parte consegnati alla memoria, in un Paese in cui è tornata a prevalere una slabbrata attitudine umanistica, peraltro languidamente degenerata nel pop, e in cui le tecnostrutture delle grandi imprese – bisognose di formalizzazione e di metodi quantitativi – hanno ridotto sempre più il loro spazio.

«Quella doppia matrice – riflette Irene – si è ben integrata quando mio nonno, uscito dalla Olivetti, prese in mano nel 1956 la Zanichelli, che già da tempo era nel perimetro della famiglia. Da subito, in un settore alieno alle nuove tecnologie, dotò la Zanichelli di calcolatori, che in particolare servivano a gestire la distribuzione. In questo, il segno olivettiano è risultato notevole. Un altro elemento olivettiano è stata la cura nella costruzione di una rete commerciale diretta, importata da mio nonno, su scala minore ma con la stessa efficienza, dall’impresa di Ivrea».

Anno dopo anno, concentrandosi sui dizionari, l’editoria per la scuola e l’università, la Zanichelli – con gli Enriques azionisti al 90% e 350 dipendenti, di cui 120 a Bologna e 90 a Torino per il marchio Loescher - è diventata una realtà che, nel 2016, ha avuto un fatturato netto di 140 milioni di euro e un Ebit da 16 milioni (l’11,4% dei ricavi). «Cerchiamo il più possibile di difendere i margini – afferma Irene, che è direttrice generale dal 2006, quando il padre Federico venne eletto senatore con i Democratici di Sinistra – anche se questi ultimi sono strutturalmente calanti. Vent’anni fa l’Ebit era del 15 per cento. Il nostro punto di resistenza è il 10%: sotto questa soglia si esce dall’area di sicurezza, perché l’autofinanziamento non è garantito e si rischia la dipendenza dal credito bancario. A parte la tipografia, continuiamo a controllare tutto il ciclo produttivo: la fase editoriale, la distribuzione e la rete commerciale. Stiamo cercando di fare coesistere la carta e il web. In particolare, oggi, nella scuola il digitale è un complemento della carta. Ogni anno investiamo in esso fra i 3 e i 4 milioni di euro».

Il lavoro culturale, la gestione oculata del patrimonio immobiliare e nessuna forma di sfarzo o di spreco, come si intuisce dal palazzo di Via Irnerio, un edificio di architettura fascista con gli uffici dotati di porte in legno e a doppio battente da anni Sessanta. Cento anni di investimenti e di risparmi. In una recente razionalizzazione societaria, è stata creata la Laboravi 2 con l’esatto duplicato della compagine azionaria della Zanichelli, la quale - attraverso un patto parasociale - ha una priorità sulle risorse contenute, in caso di difficoltà sul mercato editoriale. A questa nuova società sono state conferite le attività non editoriali e l’abbondante liquidità accumulata in tre generazioni.

Sotto tutti i punti di vista – culturale, sociale e finanziario – questa particolare e minoritaria borghesia italiana ha sviluppato una traiettoria che non ha avuto – come invece è capitato la maggioranza delle volte - la forma della parabola con schianto finale.

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