Facebook, sì alla condanna del politico che non rimuove i post razzisti dal suo profilo
La Grande chambre della Corte europea dei diritti dell’Uomo esclude che la condanna penale violi la libertà di espressione. Pesa anche il clima elettrorale
di Patrizia Maciocchi
I punti chiave
2' di lettura
Non viola la libertà di espressione la condanna penale, inflitta al politico locale che non rimuove dalla sua bacheca Facebook i commenti scritti da terzi, che istigano all’odio razziale. La Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nella sua composizione più autorevole, ha respinto il ricorso contro la condanna - fatto da un politico francese eletto localmente e candidato alle elezioni legislative - per istigazione all’odio razziale o alla violenza, nei confronti di un determinato gruppo di persone, per ragioni di religione o di razza. Al ricorrente era contestato di non essersi attivato per rimuovere subito i post razzisti, scritti da altri ma pubblicati sul suo profilo social. Una condanna che, ad avviso del ricorrente, violava la sua libertà di espressione, garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
L’assenza di controllo e di reazione
Oggetto di attenzione, da parte dei giudici di Strasburgo, era l’assenza di controllo e di reazione da parte del titolare della bacheca Facebook, a fronte dei commenti diffamatori pubblicati nel suo spazio social. Nella causa si è posta anche la questione relativa alla responsabilità condivisa tra le persone. La legge francese, dal 1982, prevede una responsabilità “a cascata”, e consente dunque di condannare sia gli autori dei messaggi “incriminati” sia il ricorrente, in quanto titolare dell’account Facebook. Una corresponsabilità regolata in modo chiaro dalla norma. E proprio la precisione con la quale ne è definito il perimetro, avrebbe consentito al politico locale di regolare la sua condotta.
Il peso del clima elettorale
I giudici della Cedu hanno inoltre sottolineato, come avevano fatto le Corti interne, anche il momento in cui i post erano apparsi: un periodo elettorale, durante il quale pesava in maniera particolare il messaggio di odio veicolato. Infine la Corte europea dei diritti dell’Uomo è costretta a ricordare che la libertà di espressione, invocata dal ricorrente, non ha solo lo scopo di proteggere la reputazione e i diritti dei terzi, ma ha anche l’obiettivo di assicurare la difesa dell’ordine pubblico e di prevenire il crimine. Il ricorrente non ha tenuto conto di questi aspetti e ha deciso di aprire la sua bacheca Facebook «autorizzando i suoi amici a pubblicare dei commenti». Per la Grande Chambre non poteva ignorare, tenendo conto del contesto locale e del clima elettorale che esisteva all’epoca dei fatti, che una tale possibilità comportava pesanti conseguenze.
Un necessario limite alla libertà di espressione
La Cedu conferma dunque la correttezza della condanna penale, basata su motivazioni pertinenti e sufficienti, per quanto riguarda la responsabilità del ricorrente, nella sua qualità di uomo politico, per i commenti illeciti scritti da altri, anche questi identificati e perseguiti come corresponsabili. Quanto all’interferenza nella libertà di espressione può essere considerata «necessaria in una società democratica». Non c’è quindi alcuna violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
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