Il lungo ADDIO ALL’EUROPA

Fake news e militanza anti-Ue, così la Brexit ha mandato in tilt la stampa britannica

di Alberto Magnani

Governo britannico nel caos, May difende l'accordo su Brexit

6' di lettura

Per sondare gli umori dei Brexiter, gli elettori favorevoli al divorzio tra Londra e la Ue, basta sfogliare a ritroso le prime pagine del Sun. Il 24 giugno 2016, il tabloid controllato dalla famiglia Murdoch festeggiava il referendum a modo suo: See Eu later, ci vediamo dopo, giocando sull’assonanza tra you e Eu e l’avvio della separazione dell’Isola dall’Europa. Il 14 novembre 2018, oltre due anni di trattative dopo, il titolo sull’accordo di May con Bruxelles suona un po’ meno entusiastico: «We are in Brexshit». Il senso è chiaro, ma casomai servisse la traduzione significa «siamo nella m...». La copertura mediatica della rottura fra Regno Unito e Ue ha provocato una frattura di rara profondità nella stampa anglosassone, spaccata in due fra testate favorevoli al leave e remain, uscita o permanenza nell’Unione europea.

Una battaglia iniziata prima del voto e rimasta in piedi dal referendum in poi, quando l’alternativa secca fra sì o no si è trasformata nel confronto fra Hard e Soft Brexit: lo stillicidio negoziale che andrà avanti fino al 29 marzo 2019, sempre che le dimissioni di Theresa May non spingano sul baratro le trattative con l’Europa. La narrazione vuole una dicotomia fra l’aggressività antieuropea dei tabloid come il Sun e la prudenza, anche contabile, di quotidiani più blasonati come il Financial Times. Il quadro è fondato, ma in ballo non sono finite solo le scuole di pensiero o il target editoriali. Brexit ha costretto l’industria dei media britannici anche una scelta di campo più qualitativa, che ideologica, fra il lanciarsi in un endorsement o tentare di conservare l’equidistanza. In tanti hanno scelto la prima via. Altri hanno cercat0 di preservare la seconda, finendo comunque sulla traiettoria di entrambe le fazioni.

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Una narrazione sbilanciata sul Leave
Un report pubblicato a ridosso del referendum, realizzato in tandem dal Reuters institute for the study of journalism e la società di analisi Prime Research, ha provato a fare ordine sulle scelte di campo sposate prima del voto. Su un campione di quasi 2.400 articoli dedicati al solo referendum, il 41% offriva contenuti a favore della Brexit, contro un 27% favorevole alla permanenza nei confini Ue. Fra 10 delle testate più lette nel paese, sei risultavano schierate per la rottura (tra cui i tabloid a grande tiratura come Daily Express, Sun e Daily Mail), tre per il remain (Daily Mirror, Guardian e Financial Times) e uno, il Times, sospeso a metà: in teoria imparziale, di fatto sbilanciato sul Leave. La divergenze di vedute si è manifestata, secondo l’indagine, anche nei tasti di battere e nelle sfumature emotive impresse al momento storico. I tabloid in campagna per la Brexit hanno insistito su concetti più generici come sovranità e anti-immigrazione, oltre a sfumare il racconto nell’idillio di una «liberazione» di Londra dai paletti europei. I quotidiani a favore della permanenza si sono concentrati sui fattori economici e scelto toni più pessimistici.

«In effetti lo sbilanciamento non ha riguardato solo la scelta fra pro-leave e pro-remain, con la maggioranza schiacciante dei primi. Ma anche la scelta dei contenuti e delle fonti» fa notare al Sole 24 Ore Rasmus Kleis Nielsen, un professore di Comunicazione politica all’Università di Oxford. «I giornali più blasonati si sono concentrati sull’economia, mentre quelli popolari hanno insistito sull’immigrazione - prosegue Kleis Nielsen - I primi hanno usato fonti esperte, mentre i secondo hanno citato prioritariamente politici britannici. Quasi solo del Partito conservatore». L’esito, secondo il Reuters institute, è stata la creazione di «bolle» cognitive, utili a rinforzare schieramenti già delineati prima del voto: la provincia ha scelto in massa l’addio all’Europa, le grandi città (e i giovani) si sono schierati per la permanenza. Due mondi paralleli, sospesi fra il linguaggio ipersemplificato dei tabloid e la ricerca di analisi fattuali dei broadsheet, i quotidiani a lenzuolo. La mattina del 24 giugno 2016, ben prima dell’uscita dei risultati definitivi, il Daily Mail scriveva in prima pagina «WE’RE OUT!» , con la foto del leader dello Ukip Nigel Farage in trionfo sopra l’annuncio della «liberazione» del Regno Unito «dopo 43 anni ai ceppi dell’Europa». Il titolo del Financial Times si sarebbe rivelato meno accattivante, ma profetico: «La sterlina oscilla all’impazzata dopo che il voto sulla Ue pone il Regno Unito sul filo del rasoio». Che è, più o meno, la cronaca dei due anni di successivi fra negoziati e tensioni interne all’esecutivo di Downing Street.

Il caso della Bbc e l’equilibrio impossibile
E qui si arriva alla seconda scelta di campo, quella ancora precedente: schierarsi o restare di lato. Un’istituzione come la Bbc, l’emittente nazionale, ha preferito tentare la via della terzietà anche di fronte alla polarizzazione violenta che si è creata su tutta l’editoria britannica. Una linea che ha finito, come da copione, per ritorcerle contro le insoddisfazioni di entrambe le parti in campo. I fan della Brexit le hanno rinfacciato di essere smaccatamente a favore della permanenza della Ue, i fan del remain hanno lamentato il contrario. Aggiungendo, però, un argomento capace di creare più imbarazzo rispetto alle accuse della controparte. I sostenitori dell’integrazione Ue hanno evidenziato proprio lo scarto qualitativo delle argomentazioni dei due fronti, accusando la Bbc di dare spazio anche a figure con poche credenziali per parlare in pubblico. Fra i casi più recenti c’è l’intervista in prima serata ad Arron Banks, un miliardario sotto indagine con l’accusa di aver finanziato la campagna per il leave con 8 milioni di sterline di «sospetta provenienza». La Bbc si è giustificata spiegando che l’intervista a Banks era di «pubblico interesse», ma la tesi ha raccolto pochi consensi. Banks è stato di «pubblico interesse» per l’intera campagna elettorale, pur arrivando già chiacchierato alla sfida propagandistica fra il sì e il no all’uscita dall’Unione. La scelta di rispettare il canone giornalistico anglosassone, con il tentativo di bilanciare la fonti, è costata alla Bbc un danno reputazione percepito - per motivi diversi - da entrambi i concorrenti.

Quel racconto «macchiettistico» dell’Europa
Alle spalle della Brexit, e delle sue inquietudini, c’è un rapporto di lunga diffidenza nei confronti dell’Europa. Intese come le sue istituzioni, gli apparati oggi derubricati dai tabloid a «ceppi» sulla libertà commerciale e politica del Regno. Per non parlare di uno dei capi di imputazione sollevati più di frequente, quello di aver spalancato le porte del Regno all’invasione incontrollata di migranti dal Continente. La stampa inglese ha avuto il suo ruolo, anche se i rapporti con l’establishment europeo non sono sempre stati così bellicosi. Mathias Häußler, un esperto di storia europea oggi in cattedra all’università bavarese di Regensburg, ha ricostruito la parabola che ha portato i tabloid a vedere nell’Europa prima uno sbocco naturale, poi la gabbia soffocante dipinta per tutta la campagna in favore del Leave.

Testate come il Sun e il Daily Mail sono passati nell’arco di un decennio da spendersi in favore del remain al referendum del 1975 (quando il sì alla permanenza nell’allora Comunità europea vinse con il 67,2%) all’ostilità esplosa dagli anni ’80 in poi. In quel periodo, scrive Häußler, la combinazione fra svolte «identitarie» del governo Thatcher, espansione economica e lo sviluppo dell’integrazione europea spinto da «commissari di sinistra» ha ribaltato la percezione dell’Europa. Buona parte dell’insofferenza è stata dovuta all’immigrazione e all’obbligo di sottostare ai «diktat di Bruxelles», nel rimpianto del magnifico isolamento del Regno. Il resto si è affidato a una descrizione sempre marginale, o macchiettistica, del funzionamento della macchina europea. La stampa anglosassone, comunque ben radicata a Bruxelles, ha spesso indugiato a un racconto aneddotico di quello che succedeva nella Ue. Verso la fine degli anni ’80, in particolare, il corrispondente del quotidiano Daily Telegraph inizia a farsi notare con quelli che diventeranno noti come gli «Euromiti»: cronache a metà via fra il reale e il fantasioso, dove un fondo di verità viene utilizzato per montare storie che ridicolizzano o accusano la Comunità europea e il suo presidente (socialista) Jacques Delors. Fra i vari “scoop” di quel periodo c’è la notizia che l’Europa avrebbe tramato per fissare una taglia unica sui preservativi, poi risultata falsa. Quel corrispondente si chiamava Boris Johnson. Oltre 10 anni dopo aver lasciato Bruxelles si sarebbe trovato in mezzo a uno dei suoi stessi Euromiti, la Brexit.

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