sbagliando si impara

Far parte di una squadra, la grande lezione di un padre degli Anni 80

Il rispetto delle persone che devono interagire con noi vale nella vita quotidiana come nei rapporti di lavoro e nelle strategie di management

di Andrea Beretta *

(AP)

4' di lettura

Nell'inverno del 1984 il mio amico Alfio Colombo giocava a calcio nel Casorezzo, stava per compiere 18 anni e frequentava il terzo anno di un liceo classico di provincia. Non andava da solo alle partite per due motivi: non aveva la patente (né un motorino); ed era una rara occasione per lui e suo padre, Franco, di vedersi, stare insieme e scambiare quattro parole. Alfio aveva iniziato a uscire il sabato sera, un po’ in ritardo rispetto ai suoi amici, deciso a recuperare il tempo perduto: con Anna che, dopo anni di corteggiamento, sembrava mostrare segni di interesse o di cedimento; con gli amici, che da qualche mese avevano scoperto universi paralleli di divertimento in quelle serate invernali di paese.

Alla terza sera in cui Alfio era rientrato dopo le 3 del mattino, Franco era sbottato e gli aveva fatto una bella predica: «Questa storia che rientri così tardi la sera del sabato deve finire. Dammi retta: so che al mattino ti alzi al primo richiamo e che ti alzeresti anche se dovessi usare la sveglia, al primo squillo, senza indugiare. Ma ormai sei grande e devi fare delle scelte: o torni prima la sera, oppure non vai più a giocare a calcio. Se giocassi a tennis o facessi gare di nuoto o di tiro al piattello, non avrei niente da dire. Ma tu sei uno degli undici. Giochi insieme ad altri dieci compagni. È una questione di rispetto: non puoi presentarti al campo avendo dormito tre o quattro ore. Tu devi essere al massimo della forma e garantire ai tuoi compagni le tue prestazioni migliori. Se dormi troppo poco, non riuscirai; e rischi di far perdere la tua squadra solo perché hai fatto tardi la sera. Non va bene. Quindi: o continui a tornare tardi e smetti di giocare; oppure continui a giocare, ma rientri prima di mezzanotte la sera prima della partita. Hai tempo una settimana per decidere».

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Nell’estate di questo caldissimo 2019, una sera di luglio, Alfio mi ha raccontato questa storia. Come direbbe Aldo Baglio, la mia prima reazione è stata: «Miii, non ci posso credere». Roba d’altri tempi, così lontana dai nostri giorni da risultare antica. Nei racconti attuali tra genitori di figli adolescenti che giocano a calcio (ma anche a pallavolo o a basket o a pallanuoto) si parla della nostra fatica, le mattine domenicali, nel far alzare i ragazzi per andare a giocare. Non di tutti e non tutti allo stesso modo. Per qualcuno addirittura non vi è nessuna fatica, avendo il figlio una grande passione per il gioco, una forte motivazione ad alzarsi e nessun desiderio di restare a dormire e perdere la partita della domenica.

Ma l’idea di porre un aut aut, di sancire un bivio, di esigere una scelta tra tornare tardi o andare a giocare, come nel racconto di Alfio, non l’ho mai sentita nelle mie conversazioni abituali. E nemmeno mi è mai venuta in mente come richiesta possibile. Chiedere un risveglio puntuale, ottenere un extra impegno nonostante le poche ore di sonno o per supplire alle poche ore di sonno, richiamare l’attenzione sulla capacità di tenere insieme due forme di divertimento (calcio e uscite serali) senza che l’una danneggi l’altra: mi sembrano azioni genitoriali serie e praticabili.

L’invito del padre di Alfio, Franco, supera questo orizzonte e appare esemplare: assunta l’impossibilità sul medio lungo periodo, per un singolo individuo, di garantire qualità ed efficacia alle sue performance avendo alle spalle poche ore di sonno, pone il veto sulla partecipazione all’attività stessa, in quanto attività collettiva, perché ineluttabilmente dannosa per gli altri.

Trentacinque anni prima che la retorica sul gioco di squadra svuotasse di qualsiasi significato queste tre parole, una richiesta a un ragazzo diciassettenne contiene una proposta radicale di responsabilità e di appartenenza che si fonda su una necessità: tutelare l’Altro (in maiuscolo, come insegnano Recalcati e Lacan) e la sua possibilità di essere felice. L’Altro: compagno di squadra, di viaggio, di esplorazione. L’Altro: collega di team, di ufficio, di filiale. L’Altro: capo, collaboratore, cliente. L’Altro: architrave del gioco di squadra.

È da qualche mese uscito un libro edito da Mondadori (Niente di teste di cazzo - Lezioni di vita e di leadership dagli All Blacks) scritto da un coach di team sportivi, aziendali e forze speciali, James Kerr. Franco Colombo non è citato nel libro, non perché non ha mai giocato negli All Blacks (il libro è pieno di aneddoti e di curiosità di mondi diversi da quello del rugby) ma solo perché non ha vinto campionati, né conquistato medaglie, né allenato squadre di calcio. E ha smesso troppo presto di accompagnare suo figlio Alfio sui campi di gioco. Eppure, in questa partita amichevole mai disputata, Colombo batte Kerr 1-0, fuori casa: per sintesi, chiarezza, efficacia. Il gioco di squadra, spiegato ai ragazzi. Il gioco di squadra, alla portata di tutti. Forse, speriamo.

* Partner di Newton S.p.a.

Riproduzione riservata ©

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