«Fca-Psa? Fusione obbligata per i due gruppi e l’auto europea»
L’ex presidente di Fiat giudica Stellantis e ripercorre la vita nella villa di Fiesole: la nostalgia per la moglie, l’amicizia di Paolo Villaggio
di Paolo Bricco
6' di lettura
«A me l’operazione Fca-Psa piace. A Fca mancava un partner europeo forte, in grado di garantire una offerta di prodotti più “robusta” rispetto alla vecchia Fiat e con una cultura nell’elettrico che né la sua componente italiana né la sua componente nordamericana hanno. A Psa la fusione conferisce il capolavoro industriale di Sergio Marchionne, cioè Jeep e Ram, grazie a cui il nuovo gruppo avrà un radicamento significativo negli Stati Uniti. L’amministratore delegato Carlos Tavares è un car-guy, un abile ristrutturatore e un uomo di sviluppo. La presidenza è insieme un punto di arrivo e di partenza per John Elkann. John, che dopo il Politecnico ha iniziato come mio assistente quando ero presidente della Fiat, ha dimostrato di essere diventato un vero businessman quando si è chiamato fuori dal negoziato con Renault in un minuto netto, alla richiesta del Governo francese di ottenere la golden share».
Paolo Fresco è nella sua villa di Fiesole, sulle colline di Firenze, la casa di campagna del Settecento dei Della Rovere, discendenti del Conte Ugolino, acquistata nel 1998, al rientro in Italia dopo trent’anni trascorsi fra Londra e New York da numero due di General Electric.
Artefice dei successi di Ge
Fresco è stata la persona più vicina a Jack Welch (“Neutron Jack”, per la forza del suo potere e la violenza dell’esercizio della leadership manageriale, assimilate alla bomba a neutroni) e ha rappresentato l’artefice della strategia di espansione e di acquisizioni che hanno reso Ge la maggiore impresa al mondo, uno dei simboli della globalizzazione, in una esperienza raccontata anche nel recente libro Mr Globalization (Nave di Teseo). E, dal 1998 al 2003, è stato presidente della Fiat, chiamato da un Gianni Agnelli anziano e alla fine malato, ma sempre regale e carismatico. «Lei si accomodi davanti a me. Io mi metto qui, nel posto che occupava mia moglie Marlene. Da quando se ne è andata nel 2015, dopo anni di doloroso Parkinsonismo, mi siedo sempre dove stava lei», dice. La sala da pranzo è stata rimodellata sulle misure sanitarie previste per il Covid-19. Sul tavolo è stato posto un desco in legno molto più grande, che consente di mangiare in sicurezza.
Domani, 4 gennaio, Fiat Chrysler e Psa hanno convocato le rispettive assemblee per la fusione che darà vita a un gruppo con un nome nuovo, Stellantis. Si chiude così il cerchio di una vicenda storica che, dopo la prevalenza di Cesare Romiti su Vittorio Ghidella nel 1988 e la defocalizzazione strategica della famiglia Agnelli dall’auto negli anni Novanta, aveva visto l’architrave dell’economia italiana del Novecento prossima a sgretolarsi e a precipitare.
L’incontro con Marchionne
Una caduta degli Dei evitata grazie a due personalità: Paolo Fresco, sottoscrittore con Richard Wagoner di General Motors di un contratto di compravendita di quote crescenti della Fiat da parte di GM di cui a sua volta gli Agnelli erano diventati primi azionisti con il 10% del capitale, e Sergio Marchionne, che ha saputo trasformare in oro quel pezzo di carta. «Non conoscevo Marchionne. Era entrato in consiglio di amministrazione dopo che io ero andato via. Al nostro primo e unico incontro mi accolse sulla soglia del suo ufficio dicendomi: “Ecco l’unico che ci ha aiutato veramente”. Lui fu straordinario nel monetizzare la rinuncia agli obblighi di acquisto dell’80% di Fiat da parte di GM, che Wagoner mi aveva concesso con una Put che riconosceva a noi, il pesce piccolo, almeno il diritto di essere mangiato a un determinato prezzo dal pesce grosso. Marchionne ottenne due miliardi di dollari minacciando di fare esercitare un obbligo che avrebbe fatto esplodere finanziariamente General Motors. Senza di lui, non so che cosa sarebbe successo. Penso, per esempio, che Umberto Agnelli non desse molto peso a quel contratto».
La villa ha una eleganza classica e una dimensione misurata: «Anche se, da quando non c’è più la mia Marlene, mi sembra in ogni caso troppo grande e vuota», racconta con malinconia. Alle pareti sono appesi dipinti di Botticelli, Canaletto e Bellotto e disegni di Picasso, Schiele, Klimt e Modigliani.
Il canone estetico tradizionale del Novecento, nella interpretazione di un borghese nato a Milano e cresciuto a Genova dove la madre Maria e il padre Giovanni («erano entrambi nati nel 1900») si erano trasferiti per il lavoro di lui, direttore della filiale della Banca Commerciale Italiana di Raffaele Mattioli. La piccola ala ricavata dagli appartamenti della servitù ospita una collezione di arte contemporanea, fra cui tre pezzi strepitosi di pop-art: una scultura di Roy Lichtenstein, un ritratto dedicato da Andy Warhol al fotografo Man Ray, un profilo d’acciaio di Tom Wesselmann che rappresenta un nudo di donna. E, fra il salone e questo angolo, si trovano alcuni oggetti appartenuti a Gianni Agnelli, in particolare un arazzo con suonatori e ballerini dell’Età del Jazz che era nel suo ufficio di New York, al 770 di Park Avenue: «A un’asta da Sotheby’s ho comprato alcuni pezzi appartenuti all’Avvocato. Quando decisi che non volevo fare il procuratore legale ma preferivo entrare in un’azienda, venni assunto alla CGE, che era per l’80% della General Electric e per il 20% della Fiat. Andavo una volta all’anno a Torino a presentare i conti all’azionista di minoranza. Era la Fiat di Vittorio Valletta e di Gaudenzio Bono. Tutte le volte chiedevo di incontrare Gianni Agnelli. Per l’intelligenza e il fascino, il successo con le donne e l’inimitabile joie de vivre, per noi ragazzi che ci affacciavamo al mondo era un mito».
Villaggio e De Andrè, due amicizie storiche
Arrivano i camerieri, a servire come portata unica un vitello tonnato con insalata di campo. A ottantasette anni, Fresco può confessare di avere vissuto molte vite. Una adolescenza selvatica e divertente con amici come i gemelli Paolo e Piero Villaggio: «Eravamo insieme nella sezione E del liceo classico Andrea D’Oria di Genova. Piero sarebbe diventato un matematico. Paolo era già un talento mostruoso della comicità e della osservazione sociologica. È stato il mio migliore amico. Uno dei grandi dolori della mia vita è stato ritrovarmi alla sua veglia funebre da solo con sua moglie Maura. Non c’era nessuno altro. L’ambiente dello spettacolo deve essere tremendo, pieno di invidie, ipocrisie e solitudini. Negli anni dell’università eravamo amici di Fabrizio De Andrè. Io mica avevo capito che lui fosse un genio. D’estate in Sardegna impiegavamo un quarto d’ora per convincere Faber, come lo chiamava Paolo, a suonare la chitarra e due ore per farlo smettere. Con noi c’erano anche, qualche volta, Gino Paoli e Umberto Bindi, che era un grande cantautore ma che, come omosessuale dichiarato, veniva guardato con i pregiudizi di allora e per questo soffriva molto. Rispetto agli altri, ho conosciuto meno Luigi Tenco. Ma era quella la mia Genova».
Un grande amore con una donna bellissima e raffinata, nata nelle isole Mauritius e per quattro anni modella a Parigi di Christian Dior, conosciuta a Roma in un salotto di amici ai Parioli e frequentata solo per una notte e, poi, ritrovata sei anni dopo a New York, a una festa al Village dove l’aria era spessa di marijuana. Una vita familiare con un senso della bellezza e una idea della simbiosi fra dimensione privata e professionale dura ma non cupa, inesorabile ma in fondo leggera, molto da New York-Miami-Los Angeles di Tom Wolfe e Truman Capote piuttosto che da Roma-Torino-Milano di Alberto Arbasino con la nostra aristocrazia novecentesca del denaro e del potere vitale e imperativa, ma sempre sottilmente portatrice di un senso di morte e di fallimento da vecchia Europa.
Una felicità familiare segnata dall’assenza di figli e dalla malattia che ha colpito, negli ultimi dieci anni di vita, Marlene: «Con lei, io che sono agnostico e dunque non credo nella provvidenza, ho capito che esiste il destino. Rivedersi così, dopo tanti anni, in luoghi distanti, senza riconoscersi al primo nuovo incontro e poi amarsi tutta la vita, nella salute e nella malattia. Con lei ho conosciuto la passione incondizionata, mi sono avvicinato all’arte e mi sono fatto modellare dalla sua generosità verso gli altri. Il mio erede universale è la Fondazione Paolo e Marlene Fresco. Io e lei abbiamo lasciato 25 milioni di dollari del nostro patrimonio alla New York University, nel cui ospedale Marlene è stata seguita, e ad alcuni centri di ricerca e di cura fra gli Stati Uniti e l’Italia sul Parkinson e il Parkinsonismo».
La passione per i vini rossi piemontesi
In tavola compaiono l’ultima uva dell’anno – sorprendentemente buona – e dell’ananas molto dolce. Sono serviti i caffè. I camerieri versano un altro bicchiere di barolo di Bartolo Mascarello, annata 2016: «Mi piacciono i rossi piemontesi. La conoscenza dei grandi produttori me l’ha trasmessa Brunetto, il segretario particolare che l’Avvocato aveva mandato in avanscoperta nelle Langhe, quando aveva capito che non esistevano soltanto i vini francesi. Una volta all’anno, a Barolo ci ritroviamo a mangiare tartufi con i Mascarello, i Rinaldi e le altre famiglie del barolo. Ai loro occhi, io resto il presidente della Fiat. Anche quelle famiglie sono delle dinastie. È una cosa molto bella. Una cosa molto sabauda, da Nizza Cavalleria», sorride mostrando di capire il tipo di onore che gli viene riservato da un mondo tanto duro, contadino e gerarchico come quello delle colline piemontesi, cosi vicine e così distanti dal caos vitale di New York di Truman Capote e di Tom Wolfe, dalla ovattata e fredda Torino di Fruttero e Lucentini e dalla «Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole» del poeta Giorgio Caproni e, anche, di un pugno di ragazzi speciali, fra cui uno di nome Paolo Fresco.
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