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Federalimentare contraria alla dicitura «Spesso buono oltre» sulla scadenza

Gli industriali: la proposta della Commissione europea sia un’indicazione facoltativa, e non obbligatoria, sugli alimenti

di Micaela Cappellini

(Drazen - stock.adobe.com)

2' di lettura

L’etichetta europea con la dicitura «Spesso buono oltre» sulla data di scadenza non è ancora arrivata sugli scaffali dei supermercati che è già polemica. «La dicitura “Spesso buono oltre” - scrive Federalimentare - non può essere legalmente definita, quindi crediamo che questo tipo di espressioni non dovrebbero essere richieste su base obbligatoria, ma solo volontaria». Le industrie alimentari insomma contestano la proposta della Commissione Ue non tanto nel merito dell’obbiettivo di voler ridurre lo spreco alimentare, quanto nella scelta del metodo: espressioni come “spesso buono dopo”, sostengono gli imprenditori, sollevano incertezze relative alla responsabilità legale degli operatori del settore alimentare con possibili conseguenze per l’integrità del marchio. Concetti come “spesso”, “buono” e “dopo”, cioè, non possono essere legalmente definiti. «Anche se rilevante per molti prodotti - dicono da Federalimentare - “Spesso buono dopo” non è appropriato per tutti. Per questo espressioni del genere devono essere a discrezione del produttore».

Più favorevole alla proposta contenuta nella bozza di regolamento delegato della Commissione Ue è la Coldiretti. Con dei distinguo, però: «Eventuali aggiunte in etichetta che aiutino a fare scelte di acquisto consapevoli sono positive purché siano chiare e ben comprensibili, senza ingenerare confusione - scrive l’associazione -. È importante però mantenere in etichetta il termine minimo di conservazione riportato con la dicitura “Da consumarsi preferibilmente entro”, che indica la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue caratteristiche organolettiche e gustative, o nutrizionali». Nelle case italiane, ricorda la Coldiretti, si gettano mediamente ogni anno oltre 27 chili di cibo all'anno per abitante, con perdite economiche nei bilanci delle famiglie per quasi 6,5 miliardi di euro.

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