Felice, annoiato o divertito? Il brand si adatta a come stai
di Giampaolo Colletti
4' di lettura
«La differenza sostanziale tra emozione e ragione è che l’emozione porta all’azione, la ragione a trarre conclusioni». Un pensiero passato alla storia quello di Donald Calne, ottantatreenne neurologo canadese, uno tra i più citati quando il marketing incontra le neuroscienze. Benvenuti nell’era dell’advertising emotional marketing. Con l’emozione che fa rima necessariamente con personalizzazione della relazione tra brand e utente, grazie ad un’analisi costante dei tracciamenti social. In fondo questa è l’ultima frontiera della pubblicità, quella su misura, un modo per il brand di mettere a fuoco lo stato d’animo specifico del proprio consumatore. Perché se sei annoiato, divertito, interessato, felice o spaventato acquisterai in modo molto differente.
Emozioni mappate su misura
Dimmi cosa provi e ti dirò che pubblicità vedrai. Fruendo dell’inserzione che fa per te a seconda di come sei tu in quel preciso istante. Già lo scorso anno il New York Times aveva annunciato un sistema avanzato di machine learning in grado di indirizzare il giusto messaggio a seconda dello stato d’animo dell’utente. Il quotidiano americano aveva individuato trenta emozioni, diciotto delle quali pronte per essere vendute agli inserzionisti. Ma c’è da dire che in questa operazione il Nyt è stato preceduta da Usa Today. E anche il Daily Beast è sulla stessa strada. Lo ha riportato poche settimane fa Kaitlyn Tiffany su Vox. «Le aziende sono sempre più scettiche sull’acquisto di annunci abbinati a contenuti che non corrispondono alla storia del loro marchio. Ecco perché sono a caccia di pubblici altamente specifici, allineati con i valori del brand. Avere un elenco di emozioni a disposizione assicura che il marchio sia vissuto esattamente nel giusto contesto, nei limiti delle capacità di apprendimento automatico», ha scritto Tiffany.
Target e micro-target tagliati su misura. Di più. Sezionati, mappati, indagati in dettaglio. Perché “leggere” le emozioni può risultare più efficace: lo ha scritto anche il Guardian, analizzando le scelte dei big tecnologici. In base a come stai, sarai più propenso ad un determinato acquisto. Ma per arrivare all’emotional advertising il brand deve lavorare su se stesso. L’agenzia californiana NetBase ha sfornato come ogni anno la classifica “Global Love List”, ovvero i marchi più amati in tutto il mondo. L’ultimo report ha setacciato in 200 Paesi oltre 605 milioni di post, menzioni, messaggi su forum, blog, notizie, recensioni, hashtag. I brand più amati sono quelli che riescono ad acquisire informazioni sul consumatore, comprendendo le esigenze e intuendo le evoluzioni. Perché – come sostengono i ricercatori – dovrebbero sempre essere le passioni dei consumatori a guidare il processo decisionale di ogni organizzazione. Così nella classifica ai primi posti svettano Instagram, Google, Apple, Spotify, Amazon.
Ecco perché l’emotional marketing entra prepotentemente nelle campagne dei brand, con sentimenti su misura. «Tutto ciò è frutto di fattori combinati. Si registra da parte del consumatore verso i brand una sempre minore attenzione perché le persone sono subissate di informazioni. C’è poi una bassa affezione perché la distinzione marcata del passato tra prodotti e servizi oggi è più sfumata e le qualità sono più standardizzate dal punto di vista delle performance. Oggi in fondo un buon prodotto industriale è perfetto. Ecco allora che la differenza la può fare la parte di brand essence, quando un brand diventa iconico o emblematico per una specifica categoria, cioè quando nel consumatore scattano automatismi che toccano la testa e il cuore», afferma Simonetta Pattuglia, docente di marketing, comunicazione e media alla facoltà di economia dell’Università di Tor Vergata. Catturare la labile attenzione di questo mondo liquido suscitando reazioni. Così il marketing sfrutta le reaction, diventate popolari grazie alla diffusione pervasiva sui social media, Facebook in testa. «Oggi risulta fondamentale il rimbalzo continuo tra cognitività ed emozionalità, cioè l’andare ad agire su leve emozionali. Tutto ciò si può fare con l’accentuazione di dinamiche emozionali nelle narrazioni dei brand. Anche la pubblicità, che è il sensore più acuto ancora prima delle pubbliche relazioni, è tutta giocata sui sentimenti. Sorrisi, ma anche lacrime, angoscia, disagio: perché c’è anche l’evidenziazione dei sentimenti negativi. L’importante è che i brand stiano sempre nelle scarpe delle persone», precisa Pattuglia. Una pluralità di emozioni. Con i casi di successo che si moltiplicano: dalla Barbie personalizzata al vasetto di nutella col nome specifico, dai messaggi sulle iconiche tazze di Starbucks alla campagna di Purina col single che adotta il cagnolino. «Il messaggio legato alla vendita dei croccantini arriva quasi alla fine dei video, dopo una narrazione filmica evoluta. Così gli stilemi cinematografici entrano prepotentemente nella narrazione del brand».
Numeri che diventano emozioni
La strada intrapresa è del brand su misura, con i numeri che fanno la differenza. I dati guidano le scelte di marketing, orientano le strategie, monitorano le performance, consentono di adottare oggi più che in passato una pluralità di sentimenti. «Internet, i social media e il mobile sono stati disruptive per quanto riguarda il marketing analitico. È il dato la chiave per fare la strategia: si parla di risegmenting, ovvero di riclusterizzazione dei target. E tutto ciò significa riaggiornare continuamente le matrici, con un’analisi in tempo reale e senza fine», puntualizza Pattuglia. Dai numeri ai sentimenti, che restano imprescindibili. Ne è convinta anche Pattuglia. «Ciò che rende efficace queste azioni è il contesto comunicativo legato alla personalità del consumatore e all’affinità del brand. Solo se questi tre elementi combinati sono in equilibrio, la campagna risulta vincente». In barba a machine learning e artificial intelligence, è ancora una volta l’autenticità a fare la differenza.
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