Felice Gimondi, l’Indio bergamasco che non mollava mai
Un tipo duro, che non mollava mai, come diceva di lui, con rispetto e anche un certo affetto, Eddy Merckx, il suo grande rivale, anzi la sua bestia nera perché senza quel maledetto belga che tutto vinceva, e non lasciava una briciola agli avversari, la carriera di Gimondi forse sarebbe stata ancor più splendente
di Dario Ceccarelli
5' di lettura
Per noi bambini degli Anni Sessanta, Felice Gimondi, morto a 77 anni per un malore ai giardini di Naxos, era quello delle biglie quando si giocava in spiaggia nelle piste fatte sulla sabbia con paletta e secchiello.
Era lui quello più conteso. Con la sua mitica maglia della Salvarani e poi l'altrettanto mitica maglia della Bianchi. Certo Eddy Merckx, il Cannibale”, era il più forte di tutti. Purtroppo lo si sapeva. Jacques Anquetil il più blasonato, Motta, Adorni, Dancelli, degli ossi duri; come anche Bitossi, Zilioli e Taccone, ma Gimondi, con quella faccia da Indio scaltro, era quello che tirava di più. Uno serio, Gimondi, su cui si poteva contare per vincere una sfida con le biglie un pomeriggio d'estate quando le estati sembrano infinite. E tutto, con quelle canzoni da spiaggia di Edoardo Vianello e di Adriano Celentano, sembrava andare per il meglio.
Fa un certo effetto sapere che Felice Gimondi se n'è andato così, banalmente, mentre faceva un bagno in una famosa località balneare della Sicilia. Lui che era forte in montagna, duro e irriducibile come sanno essere i bergamaschi quando s'impuntano, lo si pensava sempre pronto a inforcare una bici, per pedalare in una delle sue Gran Fondo per cicloamatori che ancora adesso riscuotono un gran successo.
Un tipo duro, che non mollava mai, come diceva di lui, con rispetto e anche un certo affetto, Eddy Merckx, il suo grande rivale, anzi la sua bestia nera perché senza quel maledetto belga che tutto vinceva, e non lasciava una briciola agli avversari, la carriera di Gimondi forse sarebbe stata ancor più splendente. Ma non si può avere tutto.
«Ho impiegato più di due anni a capire che lui era più forte di me», rispondeva il bergamasco quando gli si poneva ancora la fatidica domanda. «Però, alla fine questa rivalità» concludeva Gimondi con quel suo sorriso furbo «ha fatto bene a tutti e due. A Eddy perché lo ha umanizzato, a me perché ero sempre indicato come il più forte rivale di Merckx, il corridore più forte di tutti i tempi, non so se mi spiego».
Gimondi e Merckx: quasi amici
In effetti, era così. A furia di darsi bastonate (e Gimondi ne ha prese tante), i due avevano cominciato a simpatizzare. Non proprio amici, però avversari rispettosi l'uno dell'altro. Anche Merckx aveva capito una cosa: che quel tizzone della Val Brembana non se lo sarebbe mai più tolto dai piedi. Che bastava distrarsi un secondo per ritrovarselo davanti o subito dietro a soffiargli sul collo. Come quando Felice gli portò via il Mondiale di Barcellona nel 1973. Gimondi era fatto così: non mollava mai. E questa sua tenacia, insieme alle sue grandi doti di passista scalatore, gli hanno permesso di costruire una carriera comunque straordinaria che, a rivederla adesso, fa ancora più effetto.
Una carriera che lo ha portato a conquistare prima il Tour de France nel 1965. Poi tre volte il Giro d'Italia (1967, 1969 e 1976) e la Vuelta di Spagna nel 1968 Nel suo ricchissimo palmares spicca anche il Mondiale del 1973 a Barcellona, la Sanremo del 1974 vinta in maglia iridata, la Roubaix del 1966, il Lombardia del 1966 e quello del 1973.
In totale Gimondi ha conquistato ben 141 vittorie e indossato per 11 volte la maglia azzurra ai campionati del mondo. Un curriculum davvero eccezionale, soprattutto se paragonato a quello dei campioni attuali che se vincono un Tour o un Giro d'Italia ben difficilmente li vedrete poi partecipare, e vincere, una Parigi-Roubaix o un campionato mondiale.
Ma quello era un altro ciclismo, non più quello del dopoguerra di Bartali e Coppi, ma quello degli anni del boom economico, quando le strade cominciavano ad essere più praticabili, la televisione mostrava in diretta le corse col “Processo alla Tappa” di Zavoli e il calcio non era ancora strabordante come adesso. La stagione cominciava a marzo con la Milano-Sanremo e finiva a ottobre con il Giro di Lombardia, la corsa delle “Foglie morte”.
Era un ciclismo ancora semplice, fatto da corridori che non erano più muratori o contadini, ma che come figli di muratori e contadini intuivano che con il ciclismo avrebbero potuto condurre una vita meno grama o addirittura diventare benestanti, come è successo per Gimondi, Motta, Adorni e tutto quel gruppo di straordinari corridori degli anni Sessanta.
La carriera
Tornando a Gimondi, nato a Sedrina il 29 settembre del 1942, figlio di un postino, è salito alla ribalta vincendo da dilettante il Tour de l'Avenir nel 1964. L'anno successivo, tra,i professionisti, fa subito il botto prima conquistando il secondo posto alla Freccia Vallone e il terzo al Giro d'Italia vinto dal suo compagno di squadra Vittorio Adorni.
Proprio quel risultato convince dirigenti della Salvarani a proporgli di partecipare anche al Tour de France come gregario di Adorni. Solo che Felice quell'anno vola e da gregario diventa subito leader indossando la maglia gialla dalla terza tappa di Rouen. Una cavalcata inimmaginabile che - dopo il duello sul Mont Ventoux con Poulidor e altri due successi di tappa - lo portano vittorioso sui Campi Elisi.
«Non capivo quasi nulla di quello che mi stava accadendo - ricordava Gimondi di quell'impresa - Mi sembrava tutto facile, quasi un sogno. Tornai in Italia in macchina con la mia fidanzata Tiziana, che poi avrei sposato. Ero imbambolato e dormii quasi per tutto il viaggio…».
A togliergli il sonno non c'è ancora Eddy Merckx che esploderà solo nel 1968. Tutto sembra sorridergli. Nel 1966 infatti Gimondi si aggiudica anche la storica Parigi-Roubaix, per poi bissare alla Parigi-Bruxelles. il bergamasco conclude in bellezza anche al Giro di Lombardia, confermandosi il miglior ciclista dell'anno prima di vincere, nel 1967,il suo primo Giro d'Italia.
Ma da qui in avanti comincia la seconda parte della carriera di Gimondi, quella davvero in salita, in cui dovrà fare i conti con lo strapotere del belga che già nel 1968 conquista il Giro d'Italia trionfando nelle ultime tappe decisive, tra cui quella famosa delle tre Cime di Lavaredo.
Ci sarebbero tante altre cosa dire in morte di Gimondi. Diede molto da scrivere. Parlava poco, era schivo, ma quando parlava erano fendenti. Parole che restavano. Il grande Gianni Brera, che ne raccontò le imprese, per lui aveva coniato i soprannomi “Felix de Mondi” e “Nuvola Rossa”. Ai suoi duelli con Merckx sono dedicate le canzoni “Gimondi e il cannibale “di Enrico Ruggeri e “Sono Felice” di Elio e le Storie Tese.
Un passo indietro
Conclusa la sua carriera agonistica nel 1978, Gimondi è rimasto legato al mondo del ciclismo: soprattuto come dirigente sportivo della Bianchi, in particolare nel settore del fuoristrada, oltre che come consulente sportivo. Uomo intelligente, ma poco amante dei riflettori, Gimondi ha però sempre preferito stare un passo indietro rispetto alla ribalta. L'immagine che ricordiamo con più emozione è quella del 2 agosto 1998 quando, come presidente della Mercatone Uno, salì sul podio del Tour de France per festeggiare la maglia gialla di Marco Pantani, primo italiano a riconquistare la Grande Boucle dopo Felice. Una grande gioia di cui però, dopo la tragica morte di Pantani, Gimondi non gradì più parlare.
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