Cassazione

Figli maggiorenni, stop al mantenimento anche se il contratto è a termine

Se la durata non è troppo breve e la paga non troppo modesta il contratto, anche a scadenza, segna l’ingresso irreversibile nel mondo del lavoro e dunque la perdita dell’assegno

di Patrizia Maciocchi

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3' di lettura

Anche il contratto a termine segna l’ingresso nel mondo del lavoro. E dunque, se la paga è adeguata e l’orizzonte non troppo ristretto, il piede messo nel mondo produttivo basta ad interrompere l’obbligo da parte del genitore di mantenere il figlio maggiorenne, che va considerato ormai autonomo economicamente. Quanto al rischio che il contratto a tempo indeterminato non venga rinnovato, si tratta di un pericolo non troppo diverso dalla perdita del lavoro per altre cause che, come si sa, non fa rivivere l’assegno di mantenimento versato dai genitori. La Corte di Cassazione, con la sentenza 40282, conferma la linea della fermezza nell’”invitare” i figli che hanno superato i 18 anni a sganciarsi dalla famiglia o, più precisamente, dalla borsa dei genitori. Muovendosi su questa linea la Suprema corte, ha accolto il ricorso di un padre contro la decisione della Corte d’Appello di confermare l’assegno di mantenimento in favore dei suoi tre figli, tutti maggiorenni. Il ricorrente contestava, in particolare, il versamento in favore dell’unico tra i ragazzi, non più studente ma vincitore di un concorso come volontario al ministero della Difesa con contratti a tempo determinato e rinnovi superiori ad un anno. Per i giudici di legittimità, tanto bastava, a fronte di uno stipendio di circa 1000 euro al mese, per consentire al padre di non versare più l’assegno. Ad avviso degli ermellini i giudici territoriali hanno sbagliato a confermare il mantenimento, valorizzando solo il carattere temporaneo dell’attività lavorativa, ignorando anche la retribuzione.

L’ingresso nel mondo del lavoro è per sempre

Diverso il punto di vista della Cassazione, secondo la quale lo svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, anche se prestata nell’ambito di un contratto a tempo determinato, può costituire «un elemento rappresentativo della capacità dell’interessato di procurarsi una adeguata fonte di reddito (e quindi della raggiunta autosufficienza economica)». Se è vero che quello che conta - sottolinea la Suprema corte - è la capacità del figlio maggiorenne di far fronte alle sue esigenze, non è coerente affermare, in via generale ed astratta, che il diritto all’assegno resta anche in caso di lavoro a termine. «Ai fini che qui interessano - si legge nella sentenza - conta, infatti, l’inserimento del figlio in questione nel mondo del lavoro». E importa che l’attività sia retribuita in modo tale da consentire al figlio di provvedere a sé stesso.

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Il rischio del mancato rinnovo

Non sfugge ai giudici la possibile obiezione sull’incertezza dei rinnovi dei contratti a termine. Ma anche questa viene superata. «In tale prospettiva - chiariscono gli ermellini - la possibile cessazione del rapporto lavorativo per la scadenza del termine e il mancato rinnovo del contratto non ha, a ben vedere, un significato diverso dalla perdita dell’occupazione generata da un contratto indeterminato o dal negativo andamento di un’attività intrapresa dal figlio stesso in proprio». Evenienze che, secondo la giurisprudenza della Corte, «escludono la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento». L’inizio dell’esperienza lavorativa dimostra infatti il raggiungimento di una adeguata capacità di guadagno «tale da sola di determinare l’irreversibile cessazione dell’obbligo in questione». Una precisazione è però d’obbligo. Naturalmente - evidenzia la Cassazione - non tutti i lavori a tempo sono utili a raggiungere un’indipendenza economica. Questa può essere esclusa quando la durata del contratto è troppo breve, tanto da non offrire alcuna seria prospettiva di autonomia, come avviene per i lavori stagionali. Certo non basta ad emanciparsi neppure un lavoro con una retribuzione troppo ridotta rispetto allo scopo, come capita spesso ad esempio nell’apprendistato.

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