Fignon, trionfi e disfatte del “professore” del ciclismo
Tradotta in italiano l’autobiografia del corridore francese mancato 12 anni fa per un tumore al pancreas. I grandi successi, le sconfitte cocenti, la vita in bicicletta, il gusto del confronto in un libro che parla di un’epoca di trasformazioni profonde nel ciclismo
di Dario Ceccarelli
5' di lettura
Si intitola Eravamo giovani e incoscienti. È un bel libro, prezioso e coinvolgente, che dispiace aver finito. E che la prossima sera, quando avremo voglia di leggere qualcosa di altrettanto interessante, ci lascerà una punta di vuoto perchè la magia è finita. O come dice J. D. Salinger, ne Il giovane Holden, “…vorresti che l'autore fosse tuo amico per poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
Purtroppo in questo caso è impossibile. L'autore, Laurent Fignon, indimenticabile campione del ciclismo degli anni Ottanta e Novanta, non possiamo più chiamarlo perchè è mancato 12 anni fa per un tumore al pancreas. Aveva appena compiuto 50 anni. Era quindi ancora un uomo giovane, soprattutto adesso che il concetto di maturità e vecchiaia si è molto dilatato nel tempo. Che fosse malato, glielo avevano comunicato tre mesi prima che il libro fosse pubblicato in Francia. «Stavo guidando e ho sentito la voce del medico che diceva: “Signor Fignon, abbiamo trovato delle cellule cancerose, delle metastasi”».
Vittorie e sconfitte
Una rasoiata micidiale, per Laurent. Che era nel pieno della sua seconda vita, quella di apprezzato commentatore televisivo prima a Eurosport e poi a France Telévision. In più stava per dare alle stampe la sua autobiografia, un libro piuttosto atteso perchè Fignon oltre che un ottimo corridore è stato un personaggio molto popolare ma anche molto controverso. Che non solo ha vinto due Tour de France (1983 e 1984) e tante altre corse (tra le quali due Milano-Sanremo e un Giro d'Italia) ma che ha perso in modo clamoroso un altro Tour (1989) nell'ultima tappa a cronometro per soli 8 secondi. Una sconfitta dolorosa, per opera dell'americano Greg Lemond. Una pagina bruciante, passata alla storia del ciclismo, consumata proprio a Parigi sugli Champs Elysées dove la folla lo aspettava per decretare il suo trionfo. Una ferita incancellabile dalla quale, pur avendo in seguito vinto altre corse, il campione francese non si mai più ripreso.
Lo choc al Tour de France
Per molto tempo - ricorda Fignon - la sconfitta gli è rimasta estranea. “Quando sono arrivato al traguardo nessuno aveva il coraggio di dirmi in faccia la realtà. Avevo perso per 8 secondi. Otto infernali secondi. L'americano mi aveva preso 58 secondi in 24,5 chilometri…. Mi sentivo come un pugile suonato…. C'era chi gridava. Altri erano stravolti, storditi, inebetiti. Altri ancora si rallegravano. Sì, è vero, si rallegravano. Mi guardavano con un odio divertito, come se fossero contenti di vedermi sconfitto. Ma dov'era il piacere? Non capivo niente, io avevo perso. Loro avevano trionfato. Ma chi erano loro?”
Ma non ci sono solo le cadute nella biografia di Fignon. C'è anche - ed è questo che rende unico il libro - il senso della vita, dell'importanza di mettersi in gioco, della pura gioia di correre in bicicletta, di uscire allo scoperto nel duro confronto con gli avversari e con gli stessi amici; con il tuo direttore sportivo, gli sponsor e i dirigenti della tua squadra.
Non era un uomo facile, Fignon. Accettava le regole, ma aveva un vizio che gli ha procurato diversi problemi: voleva sempre capire, confrontarsi, anche quando la realtà del mondo del ciclismo non era quella dei sogni di ragazzo.
Un ciclismo che cambia
Va ricordata un'altra cosa importante: che Fignon ha corso su un impervio crinale di due epoche, cioè tra i primi anni Ottanta e i primi anni Novanta. Un crinale che, per l'esplosione del doping ematico e delle nuove tecnologie, del marketing e dell'invasiva crescita degli sponsor, ha spaccato in due la storia del ciclismo. C'è un prima e c'è un dopo. E Fignon ci passa proprio in mezzo, provando sulla sua pelle che il suo mondo stava definitivamente cambiando.
“Non ho mai pensato che ai miei tempi fosse meglio di adesso. Era solo diverso, tutto qui. Credo tuttavia di aver attraversato la breve parentesi hippy del ciclismo…Diciamo che eravamo più dalla parte dei ribelli che da quella dei sottomessi. Noi eravamo quelli vivi. Qualche volta, è vero, mezzi morti. Ma non siamo mai stati dei robot! Folli ma pieni di dignità…” scrive il campione francese, chiamato “il professore” perchè portava degli occhialini rotondi da intellettuale. Era anche biondo, con i capelli lunghi raccolti dietro la nuca, quindi molto appariscente nel gruppo. Uno che si faceva notare, insomma.
La dura realtà del ciclismo professionistico
Un libro che si legge di un fiato. Perchè il ciclismo, e quindi lo sport, viene raccontato senza abbellimenti retorici. Come è nella realtà: e cioè denso di fatica, sacrifici, responsabilità. Tutto questo in una età in cui non sei ancora strutturato. Gli amici vanno alle feste e tu ti devi allenare e andare a letto presto. Mangiare in un certo modo. Non correre dietro alle ragazze, soprattutto in vista delle corse. C'è anche la fortuna, il destino che cambia la vita di un campione. Basta una caduta, una tendinite, una bronchite, per uscire dal radar del successo. Il talento non è tutto. Ci vuole una volontà di ferro, e soprattutto una buona salute. Si tende sempre a dare al ciclismo un'aura romantica, sentimentale, molto eroica, ma poi, nella vita di un corridore, ci sono tante zone grigie, a volte incomprensibili agli stessi tifosi: soldi, i contratti da rispettare, la paura del declino, le invidie, la volubilità dei successo, il freddo, la pioggia, il caldo cocente.
Fignon non ci risparmia nulla. Le sue feroci litigate con Cyrille Guimard, l'onnipotente direttore sportivo che lo ha guidato per quasi un decennio. La non facile convivenza con un campione-mito come Bernard Hinault. La sua antipatia per Greg Lemond e poi per Luc Leblanc, campione del mondo nel 1994 ad Agrigento.
Fignon e l’Italia
Si parla anche dell'Italia. Sia per i due exploit alla Milano Sanremo (1988 e 1989), sia per le sue partecipazioni al Giro. La beffa (un altra!) nell'edizione del 1984 quando Francesco Moser, nell'ultima tappa a cronometro di Verona gli strappò la maglia rosa. Con una coda di polemiche roventi per le ruote lenticolari che avrebbero favorito il trentino, già sospinto dagli “aiuti” di Vincenzo Torriani, il direttore della corsa, che cancellò alcune montagne come lo Stelvio per rendere il percorso più adatto a Moser. In un altro Giro, nel 1989, invece Fignon sbaragliò la concorrenza nostrana. Era in grande forma in quell'estate. Aveva 28 anni. Tutto gli stava andando bene… Non sapeva che un mese dopo, per 8 secondi, il suo mondo si sarebbe capovolto.
Fignon non lascia zone d'ombra. Anche sul doping scientifico, che negli anni Novanta modificherà totalmente gli equilibri del ciclismo, non si tira indietro. Ammettendo anche certe sue ingenuità. Racconta Fignon: “C'era un'altra cosa che mi rifiutavo di ammettere: la sua incredibile efficacia. Con l'EPO tutte le barriere si sbriciolavamo e non mi riusciva di ammettere che la maggior parte dei ciclisti, che correvano con me, andavano forte grazie a questo prodotto”.
La fase discendente
Intensa l'ultima parte della carriera, quando è ormai nella fase discendente. Dopo aver rotto con Guimard, Fignon firma per una squadra italiana, la Gatorade, guidata da Gian Luigi Stanga, con Gianni Bugno nel ruolo di capitano. Un capitan tentenna, secondo il francese, che riconosce l'enorme talento del monzese descrivendone però le sue fragilità. Sempre con rispetto e sincerità.
“Con Fignon ho avuto un ottimo rapporto” racconta Stanga. “Un corridore di classe, ma anche generoso e leale. Sapendo di non essere più al top, si è messo spesso al servizio della squadra. Aveva un forte carisma, e quando parlava tutti lo ascoltavano con attenzione”.
Il libro, ben tradotto nell'edizione italiana dal collega Gino Cervi, si conclude con una postfazione dell'autore a proposito del suo rapporto con la malattia. E del fatto che fosse stato giusto non nasconderla. Sono pagine coraggiose, di un corridore che ha sempre corso con il vento in faccia affrontando della vita ogni spigolo, anche quello della morte.
“Se a me dovesse succedere a breve, avrò l'incredibile fortuna di andarmene senza rimpianti. Forse un po' troppo giovane, certo. Ma ho vissuto la più bella vita che si potesse immaginare. Non ho altre parole per dirlo”.
Laurent Fignon
Eravamo giovani e incoscienti
Mulatero editore, 21 euro
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