ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùI film del fine settimana

“Godland”, dall'Islanda un film per riflettere

Nelle sale un film con al centro un prete danese in viaggio per costruire una chiesa nell'Islanda del XIX secolo

di Andrea Chimento

Una scena da “Godland - Nella terra di Dio”

3' di lettura

Sette fotografie scattate durante un viaggio in Islanda da un prete danese nel corso del XIX secolo: è questa l'ispirazione alla base di “Godland - Nella terra di Dio”, film presentato al Festival di Cannes 2022 e da questa settimana protagonista nelle nostre sale.
Si tratta del terzo lungometraggio di Hlynur Pálmason, regista islandese che ha vissuto a lungo in Danimarca, dove ha studiato cinema: dopo “Winter Brothers” e “A White, White Day – Segreti nella nebbia”, Pálmason ha alzato l'asticella con una pellicola senza dubbio ambiziosa, in cui riecheggia il cinema di registi del Nord Europa come Carl Theodor Dreyer o Ingmar Bergman.

Ambientato alla fine del XIX secolo, il film racconta la storia di un giovane sacerdote danese che si reca in una parte remota dell’Islanda per costruire una chiesa e fotografare la gente del posto. Ma più si addentra nel paesaggio selvaggio, più si allontana dal suo scopo, dalla sua missione e dalla sua moralità. È un film sulla spiritualità ma anche sul rapporto tra l'uomo e la natura questa pellicola decisamente rigorosa e quasi austera nella sua messinscena, forte di una fotografia dal taglio vintage di grande fascino e suggestione.

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La cinepresa si concentra spesso sui paesaggi, anche attraverso una serie di sequenze semi-sperimentali, in cui la natura fa il suo corso mentre il flusso visivo delle immagini arriva spesso a interrompersi.

Una scena da “Godland - Nella terra di Dio”

Un film sull'identità

Bastano pochi minuti per notare come “Godland” sia un film che parla di identità, tanto da un punto di vista culturale quanto da un versante maggiormente politico: il titolo viene scritto prima in danese e poi in islandese, così da evidenziare come la pellicola vivrà di questo incontro/scontro per tutta la sua durata.

Aperto da una serie di scene di straordinaria suggestione, il film frena un po' il suo impeto in una parte centrale a tratti prolissa e non sempre coinvolgente al punto giusto, ma arrivando al termine il disegno d'insieme risulta funzionale e coerente, oltreché capace di generare una serie di importanti riflessioni nello spettatore.Notevolissima prova dei due protagonisti Elliott Crosset Hove e Ingvar Sigurdsson, due attori che avevano già lavorato con Pálmason in passato e che sono stati in grado di rendere al meglio la barriera culturale presente nei rispettivi personaggi.

Una scena da “Close”

Close

Sempre dal Festival di Cannes dello scorso anno arriva anche “Close”, opera seconda del belga Lukas Dhont dopo l'ottimo esordio con “Girl”.Al centro c'è l’intensa amicizia tra due ragazzi di tredici anni, Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele): il loro legame rischia improvvisamente di interrompersi in seguito a un evento che potrebbe cambiare le loro esistenze. Delicato racconto di formazione, “Close” è un altro film in cui Dhont indaga il tema della sessualità nei giovanissimi, optando per scelte narrative e stilistiche coraggiose e tutt'altro che banali.Il soggetto è di grande interesse e i giovani attori sono perfettamente in parte, ma in più di una sequenza si percepisce un'artificiosità decisamente indigesta per un film come questo: la freschezza dell'esordio di Dhont lascia qui spazio a un prodotto di maniera che non riesce a emozionare come avrebbe dovuto.Il talento del giovane regista classe 1991 rimane indiscutibile, come confermano numerosi passaggi di buona eleganza formale, ma avrebbe dovuto limitare la retorica e alcune scelte di sceneggiatura che faticano a risultare spontanee e realmente sincere.


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