“Gli orsi non esistono”, un film sul potere del cinema
Nelle sale arriva il nuovo lungometraggio di Jafar Panahi, ma anche l'atteso “Everything Everywhere All at Once”
di Andrea Chimento
3' di lettura
Un atto politico sul valore della libertà: si può riassumere così il potentissimo “Gli orsi non esistono”, nuovo film di Jafar Panahi che ha ottenuto un meritato Premio Speciale della Giuria all'ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Una pellicola che acquista ancor più valore considerata la situazione che sta vivendo lo stesso autore: il grande regista iraniano è stato arrestato lo scorso luglio dal governo del suo paese per scontare la condanna a sei anni di reclusione inflittagli nel 2010, perché accusato di lavorare a film anti-regime.
Nello stesso anno a Panahi era stato inoltre vietato di realizzare nuovi film, di viaggiare e di rilasciare interviste sia in Iran che all'estero, per vent'anni, con l'accusa di “propaganda contro il regime”: da quel momento l'autore ha girato in clandestinità, firmando lungometraggi importanti come “This Is Not a Film” del 2011 o “Taxi Teheran” del 2015, con cui ha vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino.Con queste pellicole Panahi è sempre riuscito a far sentire la sua voce e non fa eccezione questa sua nuova opera, in cui sposta l'attenzione dalle contraddizioni e ingiustizie della città di Teheran a quelle dell'Iran rurale.
Come nei suoi lavori precedenti, il regista è anche il principale interprete dei suoi film, capaci di combinare con equilibrio realtà e finzione: ne “Gli orsi non esistono” Panahi si trova in un villaggio al confine con la Turchia, mentre da remoto segue la lavorazione di una pellicola che la sua troupe sta girando nella capitale.
Una sequenza memorabile
In questo film che mescola giustizia sociale e considerazioni sul linguaggio cinematografico, già l'inizio ci propone un'interessante riflessione sul potere dell'immagine, sulla fotografia e sul cinema stesso: argomenti che si svilupperanno lungo tutta la pellicola, anche a partire dalla sequenza di un processo locale, in cui Panahi, imputato, rompe le tradizioni del luogo e sceglie di filmarsi, così da sottolineare ancora una volta quanto la verità debba essere documentata e non possa essere mai taciuta.Tra i tanti passaggi notevolissimi di un disegno d'insieme che funziona perfettamente, c'è però una scena che svetta su tutte le altre: un momento memorabile in cui il regista si trova prossimo a superare il confine iraniano, salvo poi tornare indietro in una sorta di anticipazione della parte conclusiva in cui sceglie di restare, nonostante il rapporto non facile con gli abitanti del luogo.Una scena che riassume il senso di questo grande film, in cui il cinema è l'arma per provare a resistere, nonostante tutto.
Everything Everywhere
All at OnceNelle sale c'è anche l'attesissimo “Everything Everywhere All at Once” di Dan Kwan e Daniel Scheinert (conosciuti come “i Daniels”), film che arriva in Italia dopo essere stato uno dei fenomeni dell'anno negli Stati Uniti, tra grandi incassi e ottime recensioni.Protagonista è Michelle Yeoh, che veste i panni di una donna che gestisce una piccola lavanderia a gettoni: è sempre oberata di lavoro e deve occuparsi non solo della sua attività, ma anche della sua famiglia. Mentre cerca di salvare entrambe, la donna assiste a una spaccatura nel multiverso, che la trascina in un’avventura fatta di realtà parallele: il suo compito ora è sconfiggere il nemico e salvare il destino degli universi, riportando così non solo l’armonia nelle varie dimensioni, ma anche nella sua vita e nella sua famiglia.Parte da premesse ambiziosissime questo film che prova a sfidare direttamente la Marvel (per i riferimenti al Multiverso), con un approccio però più “indipendente” e con tante citazioni riferite al cinema di arti marziali dell'Estremo Oriente.L'operazione è curiosa e tra le più originali della stagione, ma lo svolgimento è ridondante all'inverosimile, con una prima parte in cui continuano a ripetersi i medesimi schemi narrativi.Con l'approssimarsi della conclusione crescono le trovate, le emozioni e il coinvolgimento, ma l'andamento generale nel corso dei circa 140 minuti è altalenante e caotico: è un film semplicemente folle, nel bene e nel male, che negli Stati Uniti è stato un bel po' sopravvalutato, ma che merita comunque una visione per il coraggio e la creatività messe in campo in diversi passaggi.
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