“Il grande carro”, un dramma elegante e personale
Nelle sale arriva il nuovo film di Philippe Garrel, presentato in concorso al Festival di Berlino di quest'anno
di Andrea Chimento
3' di lettura
Uno dei film più sentiti e personali di tutta la carriera di Philippe Garrel: si può descrivere così “Il grande carro”, pellicola in uscita questa settimana, in cui si percepiscono le emozioni che il regista francese classe 1948 ha voluto condividere con noi spettatori con questo toccante progetto.
Al centro c'è una famiglia che si occupa di spettacoli di burattini: l'ultima generazione di questa ricca tradizione è composta da tre personaggi interpretati dai tre figli di Garrel, ovvero Louis, Esther e Léna.
Se anche il capofamiglia appare come un alter ego dello stesso autore, si sente quanto di personale ci sia in questa storia: oltre ai riferimenti familiari, sono presenti di fatto tutte le tematiche preferite dal regista francese. Dall'amore all'amicizia, passando per le scelte spesso autodistruttive di chi ha dentro di sé l'anima dell'artista, “Il grande carro” sembra davvero una sorta di mosaico di tutto il cinema del regista di film bellissimi come “J'entends plus la guitare” (1991) e “Les amants réguliers” (2005).
Bastano le prime sequenze per notare come questo lungometraggio sia nato sotto una stella segnata dalla grande passione che Garrel ha per la storia dell'arte e in particolare per quella del cinema: si possono infatti trovare riferimenti a François Truffaut e, nello specifico, a una bellissima scena ad altezza di bambino del suo esordio capolavoro “I 400 colpi” del 1959.
Uno sguardo malinconico
Tra i principali “figli” di quella Nouvelle Vague di cui proprio Truffaut faceva parte, Garrel ha iniziato a realizzare cortometraggi durante l'adolescenza e da quel momento ha sempre mantenuto uno sguardo incisivo ed elegante allo stesso tempo.In questo caso, però, è soprattutto la malinconia a prendere il sopravvento, con riferimento, in particolare in alcuni passaggi davvero commoventi, a come certe tradizioni stiano ormai morendo.È un film sussurrato questo piccolo lungometraggio che ha qualche lieve calo nella seconda parte, ma che riesce comunque a colpire per l'eleganza della messinscena e la delicatezza generale del tono con cui vuole portare avanti i suoi messaggi.
Molti dei lavori di Garrel sono in bianco e nero, mentre in questo caso il regista ha optato per i colori, forse per trasmettere al meglio tutta la magia di un mestiere d'altri tempi, capace di stupire e di creare meraviglia.
Assassinio a Venezia
Tra le novità della settimana c'è anche “Assassinio a Venezia”, terzo capitolo della serie su Poirot diretta da Kenneth Branagh, dopo il successo di “Assassinio sull’Orient Express” (2017) e “Assassinio sul Nilo” (2022). Ambientato alla vigilia di Ognissanti, il film racconta di un delitto davvero misterioso, per il quale viene convocato l’investigatore Hercule Poirot, sebbene sia in pensione e in esilio volontario a Venezia.Poirot prende parte, seppur riluttante, a una seduta spiritica, che si tiene in un palazzo spettrale, ma quando uno degli ospiti viene trovato morto, il detective dovrà mettersi all’opera per scovare l’assassino in un inquietante mondo pieno di ombre e segreti.Vagamente ispirato al romanzo “Poirot e la strage degli innocenti” di Agatha Christie, “Assassinio a Venezia” è il film meno riuscito della trilogia. Se già i due capitoli precedenti presentavano più di un difetto, questo nuovo lavoro è piuttosto pigro e fiacco dal punto di vista narrativo, incapace di coinvolgere come vorrebbe e privo di grandi sorprese da regalare allo spettatore.Le atmosfere generali sono affascinanti, ma non basta a rendere più interessante un prodotto che sa di già visto, grossolano in diverse scelte della messinscena e recitato senza troppa intensità da un cast che comprende, oltre al protagonista Branagh, l'attrice Michelle Yeoh, fresca vincitrice dell'Oscar con “Everything Everywhere All at Once”.
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