Finisce l’era di Domenico Arcuri, il supermanager vicino a Conte e al Pd
Un pezzo della struttura di potere tecnica nata nell’alveo del Pd, portato alla ribalta da Conte, con l’arrivo di Draghi gli è mancata la terra sotto i piedi
di Paolo Bricco
I punti chiave
2' di lettura
Prima è stato per anni uno sconosciuto. Nessuno, fuori dalla cinta daziaria di Roma e dei suoi ministeri, sapeva chi fosse. Anche se era uno degli uomini più influenti del Paese. Perché, dai suoi uffici, passavano tantissimi soldi pubblici e soprattutto perché nelle sue mani venivano recapitati sistematicamente quei fallimenti industriali che, in Italia, nessun politico, nessun sindaco e nessun sindacalista vuole mai davvero risolvere.
Poi, all’improvviso, si è ritrovato sotto la gigantesca luce artificiale della fiducia assoluta che Giuseppe Conte - in particolare nel governo con il Pd - gli ha riservato trasformandolo in una sorta di plenipotenziario di ogni apocalittico problema: dalla tragica pandemia (con la gestione inefficiente e finita sotto inchiesta giudiziaria degli acquisti delle mascherine) alla tragicomica Ilva.
Plenipotenziario decaduto
Un plenipotenziario con tanto di esposizione mediatica compiaciuta se non aggressiva (in Tv, con una fisiognomica sfrontata, si è scagliato contro i “liberisti da salotto”, in un Paese in cui i liberisti non esistono e, se esistono, sono tosti e vendicativi) e con regolare partecipazione a ogni lotteria da nuovi boiardi di Stato: il suo nome era fisso in ogni lista di papabili per Cdp, Enel e Leonardo. All’arrivo di Mario Draghi, gli è mancata la terra da sotto i piedi.
Domenico Arcuri fa parte di un pezzo della struttura di potere tecnica nata nell’alveo del Partito Democratico (non il Pd di fabbrica, ma il Pd della spesa pubblica e dell’intervento sempre e comunque per salvare qualunque crisi economica a qualunque costo) e poi condivisa con i Cinque Stelle: una struttura tecnica molto romana.
Identikit di un ex re di Roma
Ma chi è Domenico Arcuri? Lui si è sempre presentato come uno degli ultimi esponenti della cultura manageriale dell’Iri, anche se non risultano espliciti riconoscimenti “paterni” da parte di Romano Prodi, di solito generoso in questo.
Di sicuro, è espressione di Roma per come Roma è diventata prevalente sul resto del Paese negli ultimi vent’anni: una dimensione domestica (l’inglese non proprio perfetto non ha aiutato nelle trattative su Ilva con Arcelor Mittal), l’accreditamento professionale di buona qualità appreso nelle società internazionali di consulenza (Deloitte), una autotutela tecnica svolta usando in maniera molto precisa le procedure interne di marca anglosassone anche sulle questioni più critiche per la politica, una grande abilità a farsi riconoscere redditi elevati: sempre nel rispetto formale delle regole, ma agli antipodi della mitologia pubblica pauperista di un Alcide De Gasperi che nel 1947 si fece prestare un cappotto per il viaggio negli Stati Uniti.
Ora molti fingeranno di non conoscerlo
Arcuri, peraltro, esce con le sue gambe dai suoi uffici dove ha dominato dal 2007. Nessuna delle inchieste giudiziarie lo ha mai ferito a morte. Lui, in fin dei conti, ha svolto la funzione della lavatrice. Qualunque problema ci sia stato in Italia di complicato e da “risolvere” mantenendo per anni in vita i corpi morti è stato affidato a lui. Prima non lo conosceva nessuno. Poi lo conoscevano tutti. Ora in tanti fingeranno di non sapere chi sia Domenico Arcuri.
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