Libri

Finzioni mentali alla Hitchcock

E’ in libreria “Allucinazioni americane” di Roberto Calasso, per i tipi di Adelphi

di Michele Guerra

4' di lettura

«Io credo che solo ora si cominci vagamente a rendersi conto di quella enormità che è il cinema.» Così scrive, nel suo nuovo libro, Roberto Calasso. Lo scrive dopo che ha cercato di spiegare lo stato allucinatorio di una modernità cui le immagini in movimento hanno saputo dar forma e senso sia attraverso il loro modo di raccontare che le loro modalità di apparizione.

La scrittura del libro si accosta per lampi e frammenti alla sua tesi di fondo e Calasso spiega come “Allucinazioni americane” sia stato scritto in momenti diversi, alcuni di essi distanti anche qualche decennio, ma ora vada letto in sequenza, come in un montaggio continuo e trasparente che ispessisce e al contempo rischiara il cinema come vero figmentum novecentesco, come regno illusorio, finzione che appartiene alla mente e che trova lì quel supplemento di realtà che le permette di farsi feticcio.

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Hitchcock

Il cinema di Hitchcock si offre come strumento di ingresso privilegiato in questo campo di indagine, per la sua vocazione alla relazione ingannevole e per quella sua capacità – splendidamente individuata da Gilles Deleuze – di spingere l'azione e il suo movimento prima nei pressi e poi dentro una forma d'immagine mentale che rinchiude e strega sia i personaggi dei film che il loro spettatore. Calasso sceglie due capolavori della maturità hitchcockiana come “La finestra sul cortile” (1954) e “La donna che visse due volte” (1958), che gli paiono apparentati da alcuni elementi di superficie e da altri più profondi. Entrambi sono interpretati da James Stewart, entrambi si articolano lungo un complesso e irrisolto rapporto col femminile – la cui «biondità» partecipa non solo delle scelte di cast di Hitchcock, ma di una tendenza allucinogena che infine fa della donna l'elemento decisivo per la risoluzione del mistero –, entrambi presuppongono una menomazione nel personaggio maschile protagonista: il fotoreporter de La finestra sul cortile è costretto in sedia a rotelle per la rottura di una gamba, mentre l'ex-poliziotto de La donna che visse due volte è vittima di vertigini di cui vorrebbe liberarsi per tornare a muoversi con normalità.

Immagine mentale

È nella forma dell'impedimento, dell'esser condannati a stare fermi o a muoversi con limitazioni che si apre lo spazio per l'affermazione dell'immagine mentale, per il potere del figmentum che prende il sopravvento e irrompe nel reale fino a curvarlo, fino a possedere il personaggio che lo porta con sé ovunque, senza potersene più liberare. Non per nulla, scrive Calasso, «il figmentum è mobile, gira per le strade, può sedersi a un ristorante, senza che alcuno lo riconosca come tale, eccetto colui che lo ha plasmato.»

L'eccesso che il film produce scaturisce dalla compresenza e dall'integrazione di allucinazione e iperrealtà e assume le forme di una metamorfosi fisica, espressa prima nei corpi degli attori e quindi riflessa nel corpo degli spettatori, plasmati al pari dei personaggi dentro i confini sfrangiati dell'immagine mentale (e non è un caso che, in anni recenti, gli studi sulle forme della corporeità e dell'incorporazione nel cinema di Hitchcock abbiano preso sempre più piede). La distanza che ogni rifrazione presuppone sembra accomunare “La finestra sul cortile” e “La donna che visse due volte”, lungo consonanze che gradualmente emergoneo dai frammenti di Calasso e che abbandonano il cinema per spingersi verso la poesia, la fisiologia, la filosofia e la letteratura, fino a fare de “Il disperso” di Franz Kafka il sorprendente punto di arrivo e di ricapitolazione del pensiero sul cinema dell'autore. L'«enormità del cinema» è dunque oltre l'analisi delle sue forme, è nella sua connaturata disponibilità a farsi invadere e nella magica dote di ammaliare l'invasore fino a trasformarlo, fino ad impedirgli di essere di nuovo ciò che era prima di entrare in contatto col cinema (la riflessione di Calasso sui generi e sul loro destino è da questo punto di vista paradigmatica).

Le modalità di colonizzazione cinematografica della nostra cultura visuale e del pensiero moderno vengono spiegate da Calasso con l'efficace metafora dei fosfeni, «esseri che occupano il nostro campo visivo, a occhi chiusi o aperti» e che lì trovano «il loro territorio, dove vivono, si sviluppano, scompaiono.» I fosfeni «non sono eliminabili dalla volontà», assumono forme astratte e concrete che rappresentano i «prodromi di qualcosa di psichico» e Calasso li descrive come «le incalcolabili truppe a disposizione del figmentum, dei suoi agguati e delle sue epifanie.» Il cinema è capace di servirne la forma e la misteriosa funzione, di dare loro spazio nello sfarfallio dell'immagine che incontra lo schermo: «il cinema è l'unico luogo accogliente senza confini percepibili, indifferente, dove i fosfeni si dispongono su una stessa tela di fondo.»

Torna alla mente un delizioso racconto di Edmondo De Amicis del 1906, Cinematografo cerebrale, che narra di un distinto signore che solo in casa, seduto in poltrona, inizia a pensare alle sue giornate e a fantasticare e rimane preda di un'orgia fosfenica che lo trascina ai limiti dell'allucinazione e dell'iperrealtà, quasi fosse al cinematografo. Probabilmente non si era ancora pronti a comprenderne l'enormità, ma una storia era senza alcun dubbio iniziata.

Roberto Calasso, Allucinazioni americane, Adelphi, 133 pp., 14 Euro


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