Fondi Ue, le incognite di un successo
di Giuseppe Chiellino
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In un clima di soddisfazione contenuta e senza eccessivi clamori, il 31 marzo scorso si è chiuso definitivamente il ciclo di programmazione dei fondi europei 2007-2013. Scadeva infatti il termine ultimo per “certificare” le spese che regioni e ministeri titolari di un programma operativo (Por o Pon) hanno sostenuto per realizzare progetti finanziati con il Fondo per lo sviluppo regionale o il Fondo sociale europeo. La soddisfazione nasce dal fatto che, nonostante le enormi incertezze che caratterizzano la gestione italiana di questi programmi, alla fine quasi tutte le regioni e i ministeri sono riusciti ad utilizzare tutte le risorse disponibili.
I dati e le incognite
Su 27,940 miliardi di euro di assegnati dalla Ue è stata certificata (con fatture, scontrini e ricevute varie) la spesa di 27,574 miliardi. Restano a Bruxelles solo 186 milioni di euro. Più di tre quarti (146 milioni) li perde la Sicilia, ma visto come erano messe le cose solo un anno fa, c’è quasi da tirare un sospiro di sollievo. Il resto riguarda il Pon Reti (18 milioni), l’Abruzzo, il Molise e, non senza sorpresa, le due province autonome di Trento e di Bolzano. Ma stiamo parlando di spiccioli. Considerando anche la quota di cofinanziamento nazionale, a fronte di 45,8 miliardi di euro programmati, l’Italia ha certificato 46,2 miliardi, pari al 101% del totale. Nei prossimi mesi la Commissione completerà le verifiche sulle certificazioni e chiuderà i conti. Su questo risultato, che visto in retrospettiva ha del miracoloso, ci sono un paio di incognite significative.
I 729 milioni del Pon Ricerca in sospeso
La prima riguarda 729 milioni del Programma operativo ricerca (972 milioni con il cofinanziamento nazionale), gestito dal Ministero dell’Università e della ricerca scientifica. In seguito ad una inchiesta della Procura di Roma che vede coinvolti alcuni dirigenti del ministero, l’importo è sospeso come prevede il regolamento sui fondi comunitari, in attesa dell’esito del procedimento. Se saranno accertate le frodi, l’importo sarà “decertificato” e non sarà rimborsato dalla Commissione. La perdita complessiva di risorse comunitarie si aggiungerebbe ai 186 milioni sicuri già oggi. Ma per avere certezze occorrerà aspettare la conclusione del giudizio.
La contesa sull’ingegneria finanziaria
C’è poi la vicenda degli strumenti di ingegneria finanziaria, di cui l’Italia è stata una grande utilizzatrice: su un totale di 1,87 miliardi di euro stanziati dai 28 Stati membri per interventi di garanzia cofinanziati dai fondi strutturali, quasi il 60% (1,1 miliardi) è riferibile all’Italia, seguita dalla Grecia con 297 milioni (meno del 16%). Un contenzioso sul criterio di calcolo degli importi delle garanzie e la loro ammissibilità al rimborso da parte della Ue va avanti da mesi tra Roma e Bruxelles e mette in discussione una cifra non ancora definita ma nell’ordine di qualche centinaio di milioni di euro. Mentre l’Italia fa riferimento al regolamento sui fondi del 2006, in base al quale «alla chiusura parziale o finale del programma operativo la spesa ammissibile corrisponde al totale di ogni garanzia fornita, compresi gli importi impegnati come garanzie da fondi di garanzia», la commissaria Ue alle Politiche regionali, Corina Cretu, ritiene che i criteri da applicare siano quelli fissati da una nota del Comitato di coordinamento dei fondi del 2012 secondo cui sono ammissibili solo gli importi prudenzialmente accantonati per far fronte alle insolvenze previste. Tutto ruota intorno al moltiplicatore tra gli importi sostenuti con i fondi Ue e il volume dei finanziamenti aggiuntivi generati. Secondo la Commissione, tale effetto deve essere «adeguato», in modo da «evitare un eccesso di garanzie... più di quanto sia necessario per coprire le perdite attese e inattese derivanti dai prestiti». Gli effetti pratici delle due interpretazioni sono molto diversi. «Vi è il rischio – afferma un documento dell’Agenzia per la coesione – che alcuni programmi operativi possano subire decertificazioni per importi considerevoli». Maggiore è il moltiplicatore, minore è l’importo che Bruxelles considera rimborsabile. L’Italia contesta il fatto che questa novità sia stata introdotta quando le autorità di gestione dei programmi avevano già compiuto le scelte di investimento e dunque regioni e ministeri non potevano più dirottare le risorse verso misure diverse.
“Spia” dei problemi del Paese
Fin qui la fotografia della chiusura 2007-2013. Ma come si è giunti a questo risultato? E cosa significa in termini di progetti, di sviluppo, in definitiva di “coesione”, cioè di crescita delle regioni in ritardo? Questo è il tallone d’Achille delle politiche regionali europee. Un punto centrale, anche in vista della discussione sul nuovo Quadro finanziario pluriennale dal 2021 in avanti. Nonostante gli sforzi anche nel ciclo 2014-2020, resta difficile misurare l’efficacia dei progetti realizzati, per giunta con strumenti considerati troppo complessi anche dalla Corte dei conti europea. Se si guarda all’indicatore più naturale, la crescita del Pil procapite regionale, fino al 2015, almeno in Italia non si è vista la differenza tra le regioni che hanno ricevuto più risorse (il Mezzogiorno) e le altre. Come ha più volte affermato Gianfranco Viesti, economista ed esperto di politiche regionali, le difficoltà nell’utilizzo dei fondi europei sono la “spia” di molti problemi che il Paese si porta dietro da decenni, dalla scarsa capacità amministrativa alla “filiera del ritardo”. Basti pensare che nel 2011, a metà del programma, il Governo aveva dovuto chiedere a Bruxelles la riduzione del cofinanziamento nazionale di quasi 12 miliardi, per evitare che il blocco imposto dal Patto di stabilità interno bloccasse di fatto anche la spesa dei fondi europei. E nel 2013 fu necessaria un’ulteriore riprogrammazione per vincere la corsa contro il tempo e assorbire tutti i fondi.
L’addizionalità e la spesa ordinaria
Questo la dice lunga anche su un altro aspetto: l’addizionalità dei fondi Ue rispetto agli investimenti nazionali rischia di trasformarsi da principio basilare della politica di coesione in un concetto accessorio e secondario nella fase di attuazione. Un effetto prodotto anche dall’ampio ricorso ai progetti “sponda” o “coerenti” per assorbire le risorse europee anche se avviati con altre fonti finanziarie.
C’è poi la questione della spesa ordinaria nazionale, soprattutto nelle aree in ritardo di sviluppo. Una scuola o una ferrovia possono essere realizzate con interventi straordinari, ma per gestirli e fornire un servizio utile ai cittadini-contribuenti, c’è bisogno di insegnanti e di lavagne, di ferrovieri e di treni per i quali non si può fare a meno della spesa ordinaria, che è sempre più scarsa. Alla politica di coesione negli anni si è chiesto sempre di più in termini di risultati, ma facendo poco per creare le condizioni per massimizzarne l’efficacia.
A metà del ciclo 2014-2020 è ancora troppo presto per fare bilanci, anche perché la partenza è stata in ritardo. Qualche segnale positivo si può cogliere: a livello di progetti selezionati e impegni di spesa l’Italia è molto vicina alla media europea. Ma è solo un primo passo. Meglio non coltivare illusioni.
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