Foodora, per i giudici australiani l’ex rider era un dipendente e il licenziamento è illegittimo
di Valentina Melis
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Era un lavoratore dipendente ed è stato ingiustamente licenziato. Questo il parere della Fair Work commission australiana sulla vicenda un ex rider di Foodora. Il lavoratore, ad avviso del commissario Ian Cambridge, è da qualificare come un lavoratore dipendente, anziché come un lavoratore autonomo. Il licenziamento del giovane dalla società di consegna dei pasti a domicilio, avvenuto via email e senza preavviso, è stato «chiaramente ingiusto, manifestamente irragionevole, e inutilmente duro».
Secondo quanto riportato dal «Sydney Morning Herald», la Fair Work commission, il tribunale australiano che si occupa dei rapporti di lavoro, ha trovato che il licenziamento non avesse una valida ragione e che non fosse adeguatamente fondato. Alla base della qualificazione del lavoratore come dipendente, il giudice australiano ha citato il fatto che la società Foodora controllasse i suoi turni di lavoro, inclusi i luoghi della prestazione e il momento di inizio e fine del turno stesso.
La tedesca Foodora è stata ora acquisita da un’altra società di consegne a domicilio, la spagnola Glovo.
La qualificazione del lavoro dei riders, coloro che consegnano a domicilio i beni acquistati dagli utenti, è un tema al centro di svariate pronunce dei giudici, ormai in diversi Paesi (una rassegna di queste pronunce è presente nel XVII Rapporto annuale dell’Inps, del luglio 2018).
Le sentenze a favore del lavoro autonomo
Ad aprile di quest’anno, il tribunale di Torino aveva respinto il ricorso presentatato a fine 2016 da sei riders di Foodora che chiedevano di essere inquadrati come lavoratori dipendenti. Il giudice ha negato l’esistenza di un rapporto di subordinazione, attribuendo ai giovani lo status di lavoratori autonomi, in base al fatto che i lavoratori potevano decidere se e quando dare la propria disponibilità per le consegne, e che il mezzo di trasporto utilizzato fosse personale.
Va nella stessa direzione la pronuncia di un giudice di Philadelphia, in Pensylvania, ad aprile 2018: secondo il verdetto, i driver di Uber sono independent contractors, cioè lavoratori autonomi, perché lavorano quando vogliono e sono liberi, fra una corsa e l’altra, se lo desiderano, di svolgere commissioni personali o di fare delle pause in autonomia. Dello stesso avviso un giudice della Corte d’appello di Parigi: a novembre 2017 ha stabilito che un driver di Deliveroo non poteva essere riclassificato come dipendente perché era libero di selezionare i suoi turni e di scegliere quando lavorare. Inoltre, rifiutare un turno, non gli sarebbe costato alcuna sanzione da parte dell’azienda.
I giudizi a favore del lavoro dipendente
È più in linea, invece, con la recente sentenza della Corte australiana la pronuncia di un giudice di Valencia, in Spagna, che a giugno 2018 ha riconosciuto a un rider di Deliveroo di dover essere inquadrato come lavoratore dipendente. Tra gli elementi considerati dal giudice, figurano in questo caso la rilevazione via Gps del tracciato scelto dal rider e dei tempi di consegna, il fatto che il prezzo sia fissato dalla piattaforma e che la piattaforma stessa sia il mezzo di produzione (sia la App, sia il sito web appartengono a Deliveroo, mentre il rider non ha una struttura aziendale).
Lo status a metà strada
A ottobre 2016 il London Employment Tribunal aveva qualificato i driver di Uber come workers, uno stato intermedio tra employment (lavoro dipendente) e self-employment (lavoro autonomo imprenditoriale). Lo stato intermedio di workers dà diritto al salario minimo e alle ferie retribuite. Per la Corte inglese, i conducenti di Uber non erano da considerare lavoratori autonomi imprenditoriali, perché la società impone una serie di condizioni, dalla scelta dei veicoli, alle istruzioni su come eseguire il lavoro.
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