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Un singolare contrappasso grava da decenni sulla scuola italiana: tanto più essa è uscita di fatto dall’orizzonte degli interessi considerati vitali per lo Stato, tanto più è stata fatta oggetto di un’inesausta smania riformista, che ha condotto alle derive dell’iperpedagogismo, del superburocratismo, della sindacalizzazione estrema. È ora in corso il dibattito parlamentare sull’ennesima riforma, che affronta il nodo decisivo della formazione e del reclutamento dei docenti, col ministro Bianchi che ha manifestato disponibilità «a migliorare tutto quello che può essere migliorato».
Stavolta la “sindrome Gentile” che pare colpire ogni ministro è stata scatenata da un’urgenza condivisibile: il superamento di una concezione minimalista del bagaglio di competenze che distingue la formazione del docente da quella del laureato, ossia dei 24 crediti nelle discipline antropologiche, psicologiche, pedagogiche e metodologie didattiche introdotti dal DM 616 del 2017; i crediti saranno da ora in avanti 60, vale a dire un intero anno di formazione teorica e pratica. Tuttavia, l’idea che si possano cominciare ad acquisire questi crediti durante il percorso normale degli studi, e addirittura durante il primo triennio di base, mina il principio di serietà sul quale la riforma Bianchi intende basarsi. Gli ordinamenti didattici sono calibrati sull’impegno che uno studente è in grado di sostenere con successo, e il valore della cultura e dei saperi risiede nella concentrazione e nell’intensità con cui a essi ci si dedica. Il modello italiano di una formazione universitaria non centrifuga ha consentito ai nostri laureati di essere molto ricercati anche all’estero: la “fuga dei cervelli” è anche il segnale di un sistema centrato e competitivo sul piano internazionale. Sommare il percorso per gli insegnanti a itinerari formativi già strutturati rischia di erodere questo modello, ingenerando una percezione di marginalità e di accessorietà. Meglio sarebbe invece un anno post-lauream dedicato e intensivo, che sappia tener conto del panorama dell’“Umanesimo digitale” che coinvolge anche la necessità di una nuova figura di insegnante capace di interrogarsi su cosa comporti questa era per i processi neuronali e cognitivi delle nuove generazioni.
Altro aspetto positivo della riforma è l’accento sulla serietà dei «formatori dei formatori», con la previsione di un accreditamento delle istituzioni che possono attivare i percorsi per i futuri insegnanti in modo da garantirne «la elevata qualità e la solidità». Ma per conseguire nel concreto questo risultato, l’accreditamento dovrebbe tener conto in prima istanza di una rete di rapporti che deve essere già ampia e in azione, tra le università accreditate e il sistema scolastico. Inoltre, la qualità della formazione non deve essere riservata solo a quello che un grande professore come Carducci definiva «il primo passo»: bisognerà vigilare sull’accreditamento delle istituzioni alle quali gli insegnanti in servizio potranno rivolgersi per la loro formazione continua, evitando di alimentare quel libero mercato dei titoli obbligatori o spendibili ai fini delle graduatorie erogati da attori variegati con meccanismi concorrenziali e finalità lucrative, ben lontani dagli scopi culturali, educativi e sociali cui le università si ispirano. Sarebbe invece opportuno, anche per evitare duplicazioni e dispersioni di risorse, legare quest’aspetto della riforma ai centri previsti dal Pnrr, ossia i tre Teaching and learning centre (Tlc) che saranno costruiti attraverso network di università e destinati al miglioramento delle competenze digitali (ma l’ambito si potrebbe espandere) per i vari livelli di insegnamento.
Alla crisi della scuola, all’indebolimento del credito e dell’aura dell’istituzione centrale per ogni Stato che guardi al proprio futuro, si deve rispondere evitando di cedere alla pressione dei cambiamenti che investono saperi, mestieri e istituzioni, per preservarne la forza anche morale, di modello disseminato che tocca per intero la realtà, creando con la sua Bildung le condizioni perché un uomo sappia “essere uomo” a ogni livello, individuale, sociale, economico. Una scuola, per citare Benedetto Croce, che sia «una realtà in cui la norma etica della trasmissione e della circolazione del sapere prevalga sul diritto positivo che ne regola la sostanza materiale e le forme storiche».
Rettore dell’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”
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