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Formazione costante e welfare aziendale: così si attirano i talenti in azienda

Oltre otto addetti italiani su dieci si dicono più propensi a scegliere un’azienda che offra opportunità di formazione e sviluppo duraturi nel tempo

di Gianni Rusconi

(vadymvdrobot - Fotolia)

4' di lettura

Preservare il proprio personale, cercando di valorizzarlo nonostante l’impossibilità di alzarne il livello retributivo per contrastare il caro vita: la situazione economica attuale non permette a molte aziende di intraprendere chissà quali iniziative per portare a bordo dell’organizzazione nuove figure e andare alla ricerca di nuovi talenti (per altro carenti in diverse professionalità, a cominciare da quelle digitali) e investire sulla formazione potrebbe essere, o forse dovrebbe essere, una soluzione da prendere immediatamente in considerazione per fidelizzare e trattenere le persone, generando un ritorno positivo anche in chiave di business.

Una ricerca condotta da Cint per conto di Docebo (multinazionale italo canadese specializzata in soluzioni basate su intelligenza artificiale a supporto dell’apprendimento in ambito aziendale) su 1.555 lavoratori dipendenti di età compresa tra i 16 e i 65 anni in Francia, Germania, Regno Unito e Italia (400 i lavoratori oggetto di indagine) ha provato a mappare lo scenario sopra descritto, estraendo anche il dettaglio relativo al nostro Paese.

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Oltre otto addetti italiani su dieci (l’82% per la precisione) si dicono più propensi a scegliere un’azienda che offra opportunità di formazione e sviluppo costanti mentre sei su dieci (il 61%) confermano la possibilità di cambiare il proprio lavoro entro dodici mesi se l’attuale azienda di appartenenza tagliasse (o non offrisse) opportunità di formazione essenziali per la crescita e lo sviluppo della loro carriera.

Il “continuous learning” è in cima alle priorità di un’organizzazione, insomma, anche se nell’era della “great resignation” e del “quiet quitting” sono anche altre le motivazioni per le quali un dipendente sarebbe disposto ad abbandonare l’attuale posto di lavoro, dalla retribuzione insufficiente (voce citata nel 78% dei casi) alla cattiva gestione aziendale (52%) fino alle scarse opportunità di crescita professionale (45%). Più in generale, la mancanza di manager adeguatamente preparati e la conseguente insufficienza di personale (dovuta anche alla carenza di nuovi talenti da inserire in organico) mettono sotto pressione i team, portando a possibili fughe. E non solo, perché un quarto degli intervistati ha indicato la “cultura aziendale debole” come ulteriore fattore che li spingerebbe a cambiare professione o ambiente di lavoro.

La formazione continua potrebbe quindi essere una base per edificare una “nuova” cultura aziendale e costituire, al contempo, una valida strategia per ridurre il turnover del personale, anche quando l'aumento salariale non è possibile. Dalla ricerca, inoltre, emerge come i Millennials siano molto attenti alle politiche di learning & development: l’83% dei lavoratori che appartengono a questa categoria affermano di essere più propensi a scegliere un datore di lavoro che offra opportunità di formazione e apprendimento continue, rispetto al 79% degli esponenti della Generazione Z. In due casi su tre, sia Millennials che Gen Z si dichiarano favorevoli a prendere in considerazione il licenziamento nel caso in cui la propria azienda tagliasse gli investimenti in formazione. Per i lavoratori baby boomer, invece, la percentuale scende al 55%.

Emblematico il commento di Claudio Tadoldi, Regional Sales Director di Docebo, secondo cui quello che osserviamo anche in Italia “è un trend chiaro, che dimostra quanto la crescita professionale sia un elemento non negoziabile quando si tratta di proseguire la propria carriera nella stessa azienda. E in un periodo in cui la sopravvivenza dell’impresa dipende dalla capacità di mantenere i team con adeguate competenze, occorre considerare altre opzioni per salvaguardare la motivazione del personale e il numero di dipendenti”.

Formazione, dunque. Anche in ragione di una tendenza ben precisa: i programmi di upskilling per migliorare le competenze dei manager e la cultura aziendale hanno un ritorno tangibile sull’investimento, sui tassi di fidelizzazione e, di conseguenza, anche sui profitti. Coltivare i talenti appare dunque come una soluzione ad ampio spettro, di recente “studiata” dal McKinsey Global Institute per identificare le strategie migliori attraverso le quali le aziende possono centrare questo obiettivo.

Non trascurare le persone che all’interno dell’organizzazione hanno le potenzialità per un salto di qualità e per reinventarsi è il primo passo, che si può concretizzare aiutando queste stesse persone ad acquisire un’esperienza più varia e creando, nel contempo, una mobilità interna in grado di mettere i dipendenti nella condizione di aggiungere nuove competenze. Se un vecchio adagio ci dice che il posto migliore dove cercare persone con aspirazioni e potenziale non sfruttato è all’interno dell’organizzazione, è altrettanto importante ricordare come abbia senso focalizzarsi sul tipo di mentalità e le soft skill richieste dal ruolo. E gli strumenti digitali, comprese le soluzioni di gamification per i test pre-assunzione, possono aiutare in questo tipo di valutazioni.

I datori di lavoro, questo l'assunto a cui sono giunti gli analisi McKinsey, devono valutare la totalità di ciò che offrono ai dipendenti, e insieme agli strumenti di welfare (previdenza e protezione, salute e assistenza, sviluppo del capitale umano, responsabilità sociale verso i consumatori e i fornitori e vari altri) una delle componenti più importanti è per l’appunto l’opportunità di imparare. Approfondire ed ampliare le competenze (digitali e non) dell’intera forza lavoro, se fatta bene, è un’attività che si traduce in produttività, innovazione e fidelizzazione. Asset di cui qualsiasi azienda oggi ha tremendamente bisogno.

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