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Formazione e digitale per un Sud al centro delle catene del valore

Nel nome ci sono l’identità e il destino. Medium terrae. “Il mare di mezzo”

di Antonio Calabrò

(WrightStudio - stock.adobe.com)

3' di lettura

Nel nome ci sono l’identità e il destino. Medium terrae. “Il mare di mezzo”, in ebraico. “Il mare tra terre” in lingua berbera. “Il mar bianco di mezzo”, in arabo. Mediterraneo, appunto. Un luogo di diversità e incroci, conflitti e confronti, guerre e commerci, che ha occupato la scena storica e proprio adesso va ripensato, riscoprendone la centralità strategica per le relazioni geopolitiche e geoeconomiche (la guerra in Ucraina è l’ultimo, drammatico capitolo di una serie di radicali cambiamenti per le relazioni sociali e le ragioni di produzione e di scambio).

Il Mezzogiorno italiano, in questo contesto, può avere una reale centralità, non più solo geografica, ma soprattutto geopolitica, come un’area economica integrata nell’Unione europea e vissuta come cerniera essenziale del dialogo con Africa, Medio Oriente e Asia.

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È necessario, in questo ridisegno strategico del Sud, fare leva su due parole. Conoscenza e mercato. Evitare le vecchie cattive abitudini delle rivendicazioni “riparazioniste” («lo Stato che, dall’unificazione d’Italia in poi, ci ha umiliato ed emarginato, ci deve dare…»), le nostalgie neo-borboniche e le tentazioni assistenziali. E ragionare invece di investimenti produttivi sulle infrastrutture, a cominciare da quelle formative (scuole e università di qualità) e dalle reti digitali. Sostenere tutto ciò che serve per promuovere intraprendenza, produttività e competitività, mettendo le imprese in condizione di crescere ed essere attori sociali positivi del benessere e del cambiamento. In un contesto di trasparenza, efficienza e legalità (le mafie sono nemiche di questo progetto). Un Mezzogiorno del buon governo e della cultura.

Ha dunque ragione Romano Prodi quando, su Il Sole 24Ore del 10 luglio, ripropone l’idea di «almeno venti nuove università mediterranee» fondate ciascuna da un ateneo europeo (partendo da Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo) e da un ateneo africano, gestite alla pari, con un solido scambio di docenti e studenti e in cui studiare «economia, agronomia, ingegneria, matematica, fisica, biologia»: un incrocio di culture, conoscenze, competenze, per definire progetti di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale e rafforzare comuni radici culturali.

Proprio le opportunità offerte dalle evoluzioni dell’economia della conoscenza, con le straordinarie applicazioni dell’Intelligenza artificiale a tutti i settori dell’industria, dei servizi e della cultura, innovano le dimensioni dello spazio e del tempo e mettono il Mezzogiorno in condizione di pensare non più tanto ai “ritardi di crescita da recuperare” quanto soprattutto alle occasioni da cogliere in termini di sviluppo, economico e civile.

Serve, appunto, una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e la progettazione di una “ri-globalizzazione selettiva” con processi di reshoring che accorcino le supply chain (la lunghezza le rende fragili e oramai poco efficienti) e le rilocalizzino nel cuore dell’Europa industriale, senza cedere a tentazioni protezioniste ma riqualificando e rilanciando tutto il sistema degli scambi internazionali in una condizione da fair trade, da commercio ben regolato.

Il ritorno a produrre in Europa e dunque in Italia mette in gioco, appunto, il Mezzogiorno. Da rendere attrattivo per risorse, investimenti, talenti. Come area di insediamenti produttivi high tech. Ma anche di servizi, infrastrutture logistiche (porti, “vie del mare”, interporti collegati alla modernizzazione ferroviaria e aeroportuale). E centri di conoscenza.

Giustamente Nino Lo Bianco, presidente di Bip, su Il Sole 24 Ore del 16 luglio, ricorda gli investimenti fatti anche da Pirelli, Google, Ibm e altri, nel Sud, per costruire centri di know how, stimolare intraprendenza e sapere scientifico e tecnologico e creare nuovi posti di lavoro.

Ecco il punto chiave. Sono le ragazze e i ragazzi del Sud i destinatari essenziali di quel Recovery Fund chiamato appunto Next Generation Eu che guarda soprattutto all’Italia e al Mezzogiorno (cui sono destinati il 40% dei fondi nazionali, se sarà in grado di spenderli con progetti produttivi e riforme radicali). E le scuole e le università in cui hanno studiato sono dunque da riqualificare e rilanciare, liberandole anche dalla soffocanti baronie familiari che ne umiliano le qualità. E da fare crescere, in una relazione virtuosa di collaborazione con i migliori atenei d’Italia e d’Europa. E con il sistema delle imprese.

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