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Forza e coraggio, la lotta sarà vinta

Da quasi due anni viviamo con l’inflazione, e non è una sensazione piacevole

di Ignazio Angeloni

Ieri giorno di market mover con il dato sui prezzi americani (Afp)

4' di lettura

Da quasi due anni viviamo con l’inflazione, e non è una sensazione piacevole. Ci sentiamo impoveriti, non riusciamo più a valutare bene i prezzi, a capire se paghiamo il giusto o se qualcuno si sta approfittando di noi. Coloro che i prezzi li fissano, anziché subirli, vivono la stessa incertezza sul versante opposto. Tutti ci chiediamo: dove arriverà? Quando finirà? Come possiamo difenderci?

Lasciamo la questione di dove sistemare i risparmi ai consulenti finanziari, alcuni dei quali scrivono efficacemente su questo giornale. Cerchiamo di capire qualcosa sul fenomeno, come e quando si fermerà, cosa possono fare le autorità – la banca centrale in primis.

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E cominciamo una volta tanto con una buona notizia: l’inflazione oggi è meno persistente che in passato. Contrariamente a quanto sostenuto, per esempio, dall’autorevole Financial Times in un articolo del 4 luglio scorso. Meno persistente significa meno resistente alle cure; principalmente a quella somministrata dalle banche centrali con la restrizione monetaria. Quindi, il “sacrificio” necessario per vincerla è minore. Per capirlo bisogna riferirsi all’unico esempio rilevante, quello della grande inflazione degli anni ’70 e ’80. Alla fine del 1979 la Riserva Federale americana, guidata dal nuovo governatore Paul Volcker e seguita a ruota dalle altre banche centrali, iniziò ad alzare i tassi aggressivamente per contrastare l’effetto inflazionistico dello shock petrolifero. Alla fine del 1980 il tasso di riferimento della Fed era stato alzato di quasi 10 punti, ben più di quanto sta avvenendo ora. Nonostante questo, l’inflazione continuò a crescere per molti mesi. Ci vollero poi quasi quattro anni, con tassi reali altissimi e una pesante recessione, perché l'inflazione tornasse vicino al 2 per cento. Una ragione per la quale il “sacrificio” allora fu così alto è che i prezzi del'energia rimasero elevati per molti anni; oggi sono già tornati al livello pre-pandemico. I mercati funzionano meglio, e non solo quelli energetici. Rimane da vincere la componente interna dell'inflazione, compito che appartiene prevalentemente della politica monetaria. La quale deve anzitutto guardarsi da alcune idee e tentazioni fuorvianti.

La prima idea, fuorviante ma popolarissima nel dibattito, è che essendo questa inflazione determinata da uno shock di offerta, ovvero da un aumento dei costi dell'energia e di altre materie di base che noi subiamo senza poterli controllare, essa deve essere tollerata perché la politica monetaria agisce attraverso la domanda. L'idea è errata per due ragioni. La prima è che i prezzi di quelle materie, che pur si formano a livello globale, non sono affatto insensibili all'azione delle principali banche centrali, fra le quali vi è certamente la Bce. La seconda ragione è che l'inflazione deriva da uno squilibrio fra domanda e offerta; se quest'ultima si riduce, che ci piaccia o no va ridotta temporaneamente la domanda. E la politica monetaria è il modo più efficace per farlo.

La seconda idea, popolare fra alcuni banchieri centrali, è che i salari non debbano aumentare. L'inflazione è sempre stata una tassa iniqua, perché colpisce soprattutto i meno abbienti, ma la cosa è tanto più grave oggi, con le diseguaglianze salite negli ultimi decenni a livelli insopportabili. I salari quindi devono aumentare, ma non tutti allo stesso modo, e soprattutto, non tutti i redditi possono aumentare in linea coi prezzi, se non si vuole che l'inflazione diventi inarrestabile. Questo riguarda soprattutto governo e parti sociali, ma i banchieri centrali dovrebbero evitare esternazioni che confondono.

L’ultima idea a cui stare attenti, perché può diventare una tentazione, è quella di alzare l'obiettivo di inflazione. Ovvero: non potendo centrare l'obiettivo, spostiamo il bersaglio. Gli accademici non hanno tutti i torti quando dicono che il 2 per cento non ha alcuna base scientifica: quel numero fu adottato quasi per caso il 21 dicembre 1989, con fretta prenatalizia, dal parlamento della Nuova Zelanda e poi curiosamente copiato in tutto il mondo. Chissà se è ancora valido, o se mai lo è stato. La ragione per non cambiarlo c'è, tuttavia, e non è tanto il rischio che i banchieri centrali perdano la faccia. La ragione vera è che spostarlo poco non aiuterebbe, mentre spostarlo molto sarebbe fatale. La giusta definizione della stabilità dei prezzi la diede Alan Greenspan nel 1994; semplificando: i prezzi sono stabili quando la gente non si accorge che il loro livello sta variando. È del tutto implausibile che un'inflazione attorno al 4%, che dimezza il valore dei risparmi in 10 anni, risponda a questa definizione. Un aggiustamento poniamo, al 3% sarebbe troppo piccolo per cambiare le cose. Meglio affidarsi alla flessibilità, ovvero magari tollerare per un po’ che l’obiettivo del 2% venga mancato per qualche decimo.

La conclusione è che la Bce, dopo il ritardo iniziale, deve continuare a fare quello che sta facendo: portare i tassi di interesse a breve termine in territorio positivo al netto dell'inflazione attesa, anch'essa misurata sul breve termine. Forza e coraggio: serve cautela man mano che si va avanti, ma le prospettive di vincere questa inflazione con costi sopportabili sono buone.

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