Fotografia in lutto: è morto Robert Frank, bardo di un’America libera e clandestina
In perenne viaggio, rivoluzionò la fotografia con uno stile diretto ed espressivo. Ritrasse i grandi eventi e i non eventi, il flusso quotidiano del vivere. Nessuno aveva mai descritto un’America così triste, vuota, oscura e sgranata
di Laura Leonelli
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Avremmo dovuto odiarlo per quello che ha fatto, sciogliere il sogno di un'America solare e bionda in ogni stagione, ricca dalla nascita, felice anche se costretta alla monotonia della villetta a schiera. E invece, da quando abbiamo appreso il suo nome, non abbiamo potuto fare a meno di amare Robert Frank, uno dei più grandi fotografi del Novecento, scomparso ieri a 94 anni nella sua casa di Inverness, in Nova Scotia.
Era nato a Zurigo, il 9 novembre 1924, otto anni dopo la nascita del Dadaismo e del Cabaret Voltaire. E qualcosa di dada, nell'insofferenza alle regole, alle rigidità, al manierismo, Frank deve averlo respirato e fatto suo. Alla fotografia si avvicina lavorando come assistente di Hermann Segesser e di Victor Bouverat. Alla fine della guerra viaggia in Europa, Milano, Parigi, e il 20 febbraio 1947, appena pubblicato il suo primo libro, 40 Fotos, parte per gli Stati Uniti, da Anversa a New York. Ad aprile lavora già con Alexey Brodovitch, fotografo di moda per Harper's Bazaar e Junior Bazaar. A modo loro due piccole Svizzere di privilegi.
Qualcosa scatta dentro, ancora l'insofferenza, dimissioni, e Robert Frank, una Leica 35mm al posto della Rolleiflex 6x6, torna fedele al suo destino errante. All'orizzonte, Perù, Bolivia, Parigi, e qui incontra Robert Delpire, l'editore che cambierà la sua storia e la nostra, e poi la Spagna, quindi di nuovo New York, dove nel 1950 sposa l'artista Mary Lockspeiser. Pochi mesi e Robert si rimette in viaggio, Londra, ed è quella della City, dell'avidità e dei banchieri, quindi Zurigo, casa, e alla madre consegna una delle tre copie del volume Black White and Things. L'altra sarà per Edward Steichen.
Quando nel 1954 Robert Frank fotografa il picnic del 4 luglio a Jay, nello stato di New York, non sa ancora che da quello scatto nascerà il viaggio dei viaggi, quell'odissea attraverso gli Stati Uniti che gli garantirà, prima volta per un europeo, la Guggenheim Fellowship dal maggio 1955 al maggio 1956, borsa di studio che addirittura verrà rinnovata per l'anno seguente.
Insieme alla moglie, al figlio Paulo e alla figlia Andrea, Frank attraversa il paese, fotografando i grandi eventi, il Convegno dei Democratici a Chicago, e i non eventi, il flusso quotidiano del vivere, la gente per strada, in macchina, una cameriera in un bar, un funerale, un jukebox, una cucina vuota con l'eterna televisione accesa, la vetrina di un negozio, un benzinaio, una coppia che balla, un'altra in moto, un'altra ancora sdraiata.
Nessun americano, e basterebbe pensare ad Ansel Adams, Edward Weston, e persino a Walker Evans, aveva mai ritratto un'America così, neppure negli anni della Depressione. Un'America così triste, così vuota, oscura e sgranata, quasi uno schiaffo al perfezionismo tecnico dello zone system. Un'America che si riconosceva nell'estetica della snapshot, veloce, spontanea, al volo come il respiro, libera e clandestina.
Un'America così poteva sedurre solo un editore europeo, Robert Delpire, che nel novembre 1958 pubblica la prima edizione di Les Amèricains. Un anno dopo, la Grove Press presenta l'edizione americana con introduzione di Jack Kerouac. Molti insorgono e accusano Frank di offendere il paese che l'ha così generosamente accolto. Ma la beat generation e quanti ancora oggi si identificano nel suo viaggio continuo, tra dolori e illuminazioni, lo adottano a nume tutelare.
Da allora la fotografia non è stata più la stessa. Neppure noi, che abbiamo visto tramontare anche l'ultimo sogno di un possibile paradiso. Strano anno il 1959, quando sessant'anni fa uscì The Americans e l'antidoto a tutti i mali che quel libro denunciava: la Barbie. Anche allora l'America cercava disperatamente di difendersi dagli “altri”.
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