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Froome, «programmato per vincere», trionfa a Parigi. Aru quinto, ma può crescere

di Dario Ceccarelli

Christopher Froome (Afp)

4' di lettura

Non è un bel modo per invogliare i lettori, ma questo 104esimo Tour de France finisce come era iniziato: senza sorprese, nel modo più scontato. Al di là della solita Kermesse finale sui Campi Elisi (vittoria dell'olandese Dylan Groenewegen), il Tour doveva consacrare Chris Froome, e così è stato. Doveva essere un Tour dominato dal Super Team Sky, di cui Froome è leader indiscusso, e così è stato. Doveva essere una corsa giocata però sul filo dei secondi, e anche questo, inesorabilmente, è avvenuto.

Verrebbe da dire: Dio che noia! Tutti in un fazzoletto di mezzo minuto. Almeno fino alla cronometro di Marsiglia, dove Froome ha dato un po' più di sostanza al quarto Tour della sua carriera lasciandosi alle spalle Uran a 54” e Bardet (terzo) a 2 minuti e 20”.

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Froome trionfa al Tour de France

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Fabio Aru, il nostro tamburino sardo, tiene a fatica la quinta posizione a 3 minuti e 5””. Diciamolo francamente: per come si erano messe le cose, non è un risultato fantastico, però, come dice anche Fabio, va guardato il bicchiere mezzo pieno. E questo bicchiere della consolazione indica due cose: che l'anno scorso il sardo si era classificato tredicesimo, e quindi c'è stata una indiscutibile crescita; e poi che Aru termina per la quinta volta un grande giro nei primi cinque posti della classifica.

Non male per un corridore ancora giovane (27 anni)‎ che in questo Tour ha dovuto arrangiarsi da solo visto che la sua squadra (l'Astana) non l'ha mai supportato a dovere. Certo, gli infortuni dei compagni hanno pesato, però nei momenti decisivi Aru si è trovato sempre senza qualcuno che l’aiutasse. Due volte in particolare: quando ha perso la maglia gialla, a Rodez, e poi sull'Izoard. Fabio era sempre solo. Meglio soli che male accompagnati, certo, ma il confronto con Super Sky di Froome è imbarazzante. Nonostante ciò, Aru si è tolto due soddisfazioni. La vittoria a La Planche des Belle Filles e i due giorni in maglia gialla che hanno hanno dato un bel po' di pepe alla parte finale della corsa.
Non a caso Froome, che di complimenti ne fa pochi, ha riconosciuto la pericolosità di Aru: «Lui è stato la più grande minaccia per me. Il modo in cui ha vinto alla prima vera sfida tra tutti noi di classifica mi ha impressionato. E poi la maglia gialla...».

È vero: il sardo, al netto della sua bronchite finale, è stato l'unico che ha tentato di far deragliare il treno Sky lanciato senza fermate verso Parigi. ‎L'unica variabile non controllabile da Froome. Per questo Aru gli ha fatto paura. La fortuna del britannico, oltre allo squadrone, è che il sardo, sempre al vento, alla fine è arrivato con la riserva al minimo. E quando si finisce la benzina i recuperi sono più lenti e i malanni più facili da prendere. ‎Insomma, nulla è perduto per Aru.

Probabilmente si trasferirà nella squadra di Beppe Saronni, dove potrà continuare la sua lunga marcia da campione. In genere, per le grandi corse a tappe, si matura dopo i 27 anni. E cioè la stessa età del sardo, cui non mancano talento e classe.

Di Froome che si può dire ancora? Se uno in cinque anni vince quattro Tour (gli ultimi tre consecutivi), qualche motivo c'è. Non basta dire che ha uno squadrone alle spalle. Anche se questa volta, rispetto al passato, il britannico ha sofferto di più non vincendo neanche una tappa. Il motivo? Perché c'erano meno chilometri a cronometro, solo 36,5 in totale. Froome è uno specialista e quindi si è dovuto adattare a un percorso non costruito su di lui.

Ma ormai, quella di fare dei percorsi che non creano troppa selezione, è una tendenza dei Grandi Giri. Anche all'ultimo Giro d'Italia è stato così. Si crea più suspense. È come un campionato di calcio che si decide all'ultima giornata: cresce l’interesse, crescono gli ascolti, c'è più pubblicità e gli sponsor sono più contenti. Il Tour è il Tour: i campioni passano, la kermesse sui Campi Elisi, resta come uno dei grandi appuntamenti dello sport mondiale.

Programmato per vincere. In effetti Froome è così. Un prodotto del laboratorio Sky. Un laboratorio che paga tutti lautamente, come si vede dalla compattezza dei gregari, usi ad ubbidir tacendo come Mikel Landa e l'inossidabile Kwiatkowski. Entrambi sono stati preziosissimi. Landa in particolare per l'enorme lavoro svolto in salita. Un lavoro che non gli ha impedito di piazzarsi al quarto posto, a 2 minuti e 21”. Avrebbe potuto far di più? Probabilmente sì, ma non era nei programmi di Sky. Tutto era centrato su Froome, se Landa vuole più visibilità vada in un'altra squadra. Cosa che infatti succederà nel 2018, quando Landa si trasferirà alla Movistar. Ora Froome, smaltite le euforie, ha già in mente la Vuelta. Punta a una doppietta, Tour -Vuelta nello stesso anno finora riuscita solo ad Anquetil (1963) e a Hinault (1978). Per questo ha fatto tutta una preparazione a lenta accelerazione che gli permetta di arrivare in ottima forma in Spagna.

Siamo alle battute finali. Un riconoscimento spetta di diritto a Rigoberto Uran, secondo alle spalle di Froome. Anche lui “single”, nel senso che ha corso senza una squadra all'altezza, il colombiano occupa la piazza d'onore a pieno merito. Mai una sbavatura, sempre sul pezzo, nonostante una certa attitudine alla jella (nella crono di Marsiglia nel finale è finito contro una transenna).

Meno bene il francese Raimond Bardet, un po'deludente nel finale. Molto più esplosivo il connazionale Warren Barguil, maglia a pois, sempre in fuga dove c'è una fuga, vincitore di due tappe, una sui Pirenei e una sulle Alpi. Bravo e coraggioso.

Due parole, infine, per Marcel Kittel, dominatore degli sprint con 5 successi più o meno in fotocopia. Attualmente è il miglior velocista su piazza. A volte ricorda Mario Cipollini. In tutti i sensi. Sia a tagliare il traguardo sia a tagliare la corda quando arrivano le tappe di montagna. La classe non è acqua.

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