«Get back», la storia dei Beatles riscritta da chi ha vinto (cioè Paul McCartney)
Parte la serie Tv di Peter Jackson sull’«inizio della fine» della band più grande di sempre. Tra la fuga di George, la resa dei conti con John e il concerto sul tetto
di Francesco Prisco
3' di lettura
Gli antichi dicevano che ogni tanto pure il grande Omero si addormenta. Noi postmoderni a Omero potremmo sostituire i Beatles: dobbiamo a loro gran parte di quello che oggi ascoltiamo, facciamo, siamo, eppure qualche volta pure a loro - tra un capolavoro come il White Album e un altro capolavoro come Abbey Road - capitava di farla «fuori dal vaso». Il progetto transmediale Get back è lì a dimostrarcelo: doveva essere un concerto, un album, un film sul ritorno alle origini della più grande band di tutti i tempi, fu una specie di aborto, col disco e il film - rititolati Let it be - che uscirono solo nel 1970, a scioglimento avvenuto.
Da Lindsay-Hogg a Peter Jackson
Per riportare in luce tutto quello che sarebbe potuto essere e non è stato, la Disney ha chiamato Peter Jackson, il regista de Il Signore degli anelli (circostanza curiosa perché proprio i Beatles, come i fan ben sanno, avrebbero voluto produrre la prima versione cinematografica della saga di Tolkien). Ne è uscita fuori una serie di tre episodi, disponibili su Disney+ il 25, 26 e 27 novembre, che recupera innumerevoli scene inedite dal girato originario di Michael Lindsay-Hogg (che non l’ha presa benissimo, diciamolo) e di fatto riscrive la storia dell’«inizio della fine» dei Fab Four. E, come sempre, la storia la riscrive chi vince: nella circostanza specifica Paul McCartney che, per anni, aveva posto il veto alla ri-distribuzione del Let it be di Lindsay-Hogg, giudicato troppo cupo e «condizionato», come può essere il resoconto a caldo di un evento che ha traumatizzato una generazione. Perché lo scioglimento dei Beatles fu esattamente quello.
La fuga di George
Jackson sostiene di aver avuto libertà assoluta nella gestione del materiale e noi vogliamo credergli: l’operazione è ambiziosa, l’allestimento complessivo emozionante, i particolari inediti che ci arrivano sono abbondanti. Per dire: si è sempre favoleggiato sull’intenzione di sostituire Harrison con Eric Clapton da parte di Macca, adesso sappiamo che George nel gennaio del 1969 per una manciata di giorni lasciò il gruppo, in disaccordo col progetto di docu-film da realizzare negli studi allestiti a Twickenham. Tutto si risolverà con il concerto sul tetto della Apple a Savile Row, ma fino a un certo punto. McCartney e Lennon sono ai ferri corti: Paul accusa John di aver sempre preteso di imporre la sua leadership, ma glissa sul fatto che, da Sgt. Pepper in avanti, se c’è un leader nella band, è sicuramente lui. Che oggi, arrivato alla soglia degli 80 anni, si erge come un gigante sulla storia della musica e del costume (ma forse, dovremmo dire, della storia e basta) dell’ultimo secolo.
L’apoteosi di Paul
Il Get back di Peter Jackson, il sontuoso libro che ne è stato tratto (Mondadori, euro 39, pp. 240), la ri-edizione rimasterizzata di Let it be e la monumentale operazione di Lyrics, raccolta dei suoi testi da lui direttamente commentati (Rizzoli, euro 65, due volumi da 432 e 480 pagine tradotti per l’Italia da Franco Zanetti e Luca Perasi) ce lo dicono con chiarezza: col senno di poi ha vinto lui, anima melodica e calcolatrice dei Favolosi Quattro, con buona pace delle pulsioni ribellistiche di John. Che era fondamentalmente un istintivo e, come tutti gli istintivi, aveva bisogno di un terreno solido su cui appoggiare i piedi. Questo terreno - a John, ai Beatles, a tutti quanti noi - lo diede Paul, con la sua immensa sapienza musicale e quell’innata capacità di rendere mainstream la rivoluzione. Perché poi, se ci riflettiamo, cos’altro sono stati gli anni Sessanta?
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