ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùA tavola con Gianfranco Zoppas

Gianfranco Zoppas: «Volevamo il mondo, qui nel Nordest. Ora vogliamo il meglio del mondo»

Il canone italiano è composto da una miscela indistinguibile di privato e di pubblico, che nella versione veneta assume spesso una mite accettazione delle cose e una amorosa passione per il futuro

di Paolo Bricco

Illustrazione di Ivan Canu

6' di lettura

«Una volta, nel Nordest, volevamo il mondo. Ora abbiamo capito che bisogna prendere il meglio del mondo. Questa vale per la vita. Ma vale anche per l’impresa. Qui era tutto un proliferare di nuove attività, di provare e di riprovare. Le aziende nate nei sottoscala dei piccoli centri della campagna, nelle aie delle cascine e nelle stalle del Veneto altrove le avrebbero chiamate start up. Volevamo il mondo. E lo volevamo perché le nostre comunità erano scampate alla guerra. Eravamo uomini e donne desiderosi di dimenticare la povertà secolare. Eravamo affamati di futuro. Adesso occorre stabilizzare e concentrare, gestire ed espandersi, rifinire e pensare. Va preso il meglio del mondo. Anche nell’impresa».

Gianfranco Zoppas classe 1943 - è figlio di Gino Zoppas, l’imprenditore delle cucine e degli elettrodomestici con la Z stilizzata, uno dei fondatori dell’Italia industriale e uno degli autori del romanzo del Nordest che - con le sue ascese e le sue cadute - ha rappresentato una esperienza storica e un modello di sviluppo fra i più originali nel panorama europeo. Un pezzo dell’anima italiana più intima e profonda, dolorosa e divertente: nel 1966 Pietro Germi girò fra Treviso e la fabbrica Zoppas di Conegliano Veneto «Signore & Signori», il film con Gastone Moschin e Virna Lisi che, raccontando vizi e virtù della provincia italiana del Boom economico, avrebbe vinto l’anno dopo la Palma d’oro al Festival di Cannes.

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“Dalla Clemi”, trattamento da re

Siamo proprio a Conegliano Veneto, all’Osteria al Castelletto, che tutti conoscono come “dalla Clemi”, perché dal 1976 è gestita da Clementina Viezzer, l’ex custode del vicino castello della nobile famiglia degli Arrivabene. La Clemi tratta Zoppas con la rudezza piena di affetto che si riserva a chi è più di un amico, è ormai quasi un parente acquisito. «Dalla Clemi passano tutti - spiega Zoppas - i clienti abituali di ogni settimana e quelli che, durante le vacanze, vanno e vengono dalle Dolomiti, perché è sulla strada che porta, da Roma e da Milano, a Cortina. Il mio amico Muhtar Kent, ex presidente e amministratore delegato della Coca Cola, quando dagli Stati Uniti doveva andare in Cina o in Giappone, partiva da Atlanta, faceva scalo a Treviso per rifornire di carburante il jet aziendale, veniva a mangiare dalla Clemi e ridecollava per l’Asia. Io sono qui ogni domenica sera. Se posso consigliare, facciamoci portare gli antipasti che sono abbondanti e buonissimi. Poi decidiamo se prendere un primo o un secondo. Mi ascolti».

E perché non dovrei ascoltare Zoppas che dalla Clemi è trattato come un re, tanto da riservare a lui e a me il tavolo più vicino a lei, che sta seduta come una regina sulla sedia più alta al centro della sala, con il grande fuoco dietro alle spalle su cui cuoce la carne alla brace. E, così, via alla sequenza: la misticanza con l’uovo sodo grattugiato e la pancetta, il cotechino servito sulla fonduta di formaggio e con marmellata di mirtilli e cren (radice di rafano), gli arancini di riso, il pollo allo yogurt, il carpaccio di carne cruda con aceto balsamico.

Dai componenti per l’industria al packaging in Pet

Gianfranco, che mangia di gusto, è il fondatore dell’Irca e della Sipa. La prima è specializzata in componenti per l’industria meccanica. La seconda in macchine per il packaging in Pet, in particolare per le bottiglie. Le due società hanno un fatturato consolidato che quest’anno sfiorerà il miliardo di euro. Parlare con lui significa parlare con un imprenditore che deve misurarsi costantemente con gli assilli della attualità più stretta («il costo dell’energia e delle materie prime produce una significativa inflazione interna»), ma anche con un testimone che ha conosciuto alcune delle pagine più intense della nostra storia: l’odore delle macerie della Seconda guerra mondiale e la gioia di vivere del Miracolo economico, l’eccitazione da crescita-crescita-crescita di un Nordest che aveva sperimentato per decenni la diffusione della pellagra e l’umiliazione dell’emigrazione, il conflitto fra capitale e lavoro, duro quanto nelle città-fabbrica di Torino, Genova e Milano: «La nostra abitazione a Conegliano Veneto era circondata dai nostri stabilimenti. La struttura era a ferro di cavallo. Durante le lotte operaie del 1960 e del 1961, per uscire da casa o per rientrarvi io e i miei famigliari dovevamo passare dai posti di blocco dei sindacati».

“Guarda e impara”

Io bevo un bicchiere di Venegazzu, un uvaggio di cabernet, merlot e malbec prodotto sui Colli Asolani dalla cantina Conte Loredan Gasparini. Niente, invece, per Gianfranco: «Non bevo più nemmeno un bicchiere. Ho molto amato il vino. Ora ho preferito rinunciare», spiega. E, intanto, racconta: «Mio padre Gino aveva fatto le elementari. Era un uomo di grande intelligenza pratica. Il suo motto era “guarda e impara”. Mi portava con lui in fabbrica e in ufficio. Anche all’estero. Io sono nato nel 1943. La prima volta in cui andai in Germania, ero poco più di un bambino. Partecipammo alla fiera internazionale di Hannover. La Germania era ancora semidistrutta. Io e papà dormimmo in un bunker riconvertito in albergo. A diciassette anni lo accompagnai negli Stati Uniti. Visitammo la General Electric e la Whirlpool. Lui aveva una grande capacità di osservazione. Capiva le fabbriche degli altri e poi usava quello che aveva appreso per organizzare le sue. In azienda sapeva essere un uomo duro e imperativo. Non è stato facile essere suo figlio. Ma era anche morbido e divertente quando con i suoi compagni organizzava al bar e in osteria scherzi come quelli fatti in “Amici Miei” da Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret e Adolfo Celi».

In tavola arrivano due primi: il risotto alla zucca e gli spaghetti con il radicchio di Treviso e il formaggio fiocco fuso di Soligo. Gianfranco Zoppas ha conosciuto ascese e cadute. Perché il Nordest - come il nuovo capitalismo italiano nato dal nulla nel Boom economico - è stato anche e soprattutto questo.

Declino del settore “bianco” e ristrutturazione

Parla senza retorica e si esprime senza supponenza. Nell’intersecarsi delle storie industriali e famigliari, ha sposato nel 1970 la figlia di Lino Zanussi, Antonia, con cui avrebbe avuto due figli, Matteo e Federico (oggi è sposato in seconde nozze con Vittoria Ferria Contin). Nel 1968 Lino aveva perso la vita, con buona parte della sua dirigenza, in un disastro aereo in Spagna. Una vicenda intrecciata e complessa: Zoppas ha prima salvato l’azienda del padre (scomparso nel 1970), facendola confluire nella Zanussi nel 1973, e poi ha dovuto risanare quest’ultima, nel pieno del declino del settore del bianco in Italia. «Negli anni Ottanta - ricorda Zoppas - ristrutturai la Zanussi riducendo il personale da 33mila a 16mila addetti. Il tutto sotto l'egida della Mediobanca di Enrico Cuccia. Ho conosciuto bene quel mondo. Mi ha sempre interessato. Ma non mi ha mai plagiato. Attraverso la mia prima moglie Antonia ho frequentato Gianni Agnelli, che era stato amico di suo padre Lino. L’Avvocato aveva grande fascino, ma cercava sempre di incantare tutti gli altri. Quando le cose andarono male, ho sperimentato la durezza di Vincenzo Maranghi. Ha presente il motto latino “Vae victis?”, “Guai ai vinti?”. Ecco, gli calzava a pennello. Chiedeva, nella ristrutturazione, cose impossibili. Abbiamo avuto scontri furibondi».

Nel 1984, gli svedesi della Electrolux hanno acquisito la Zanussi. Zoppas sa che cosa significa dovere risanare le aziende di famiglia. Sa che cosa significa non essere più proprietario di ciò che era tuo. Sa quanto possono essere intense la ferocia e la determinazione necessarie per ricostruire un proprio percorso, insieme alla tua famiglia. In questo è veramente un tipo italiano, della specie del Nord-Est: un modello capace negli anni Sessanta e Settanta di cogliere i vantaggi della “deregulation” informale italiana – con una spaccatura fra mondo della politica e dell’impresa che, nella Prima repubblica, avvantaggia anche quest’ultima - e di adattarsi bene alla globalizzazione degli anni Novanta, quando Vicenza e Conegliano Veneto sono più vicine a Shangai e a Minneapolis di quanto non siano a Milano o a Torino.

Passato e presente sovrapposti

Nel caso di Zoppas, il passato e il presente si sovrappongono in continuazione: «Ho lavorato per nove anni in Zanussi con Electrolux come loro manager. E ho imparato tantissimo. La standardizzazione delle procedure, la razionalità manageriale, la distinzione netta fra proprietà e dirigenza, l’importanza della esecuzione. Sono tutte cifre proprie del modello della multinazionale che, in molte imprese del Nordest e dell’Italia, non sono presenti con la forza del metodo e con l’intensità degli automatismi di quella specifica cultura di impresa. Si ricorda quando le ho detto che dobbiamo espanderci, consolidarci e diventare più solidi? Nelle imprese di famiglia, per riuscirvi, io ho inserito anche quello che ho imparato dai manager e dagli azionisti svedesi».

La Clemi, alla fine del pranzo, porta in tavola del gelato alla vaniglia servito con le pere cotte e lo zabaione caldo e della crostata di mele cotte con marmellata di albicocche. Il canone italiano è composto da una miscela indistinguibile di privato e di pubblico, che nella versione veneta assume spesso una mite accettazione delle cose e una amorosa passione per il futuro. E, mentre saluto Gianfranco Zoppas - imprenditore, figlio di imprenditore e padre di imprenditori - mi vengono in mente i versi di un altro figlio di Conegliano Veneto, Andrea Zanzotto, che nella poesia “Nel mio paese” scrive: «Leggeri ormai sono i sogni, da tutti amato con essi io sto nel mio paese, mi sento goloso di zucchero. Di porta in porta si grida all’amore nella dolce devastazione e il sole limpido sta chino su un’altra pagina del vento».

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