Gioielli, l’industria è davvero sostenibile? Dalle miniere al negozio, la sfida aperta è sulla tracciabilità
Le certificazioni che finora avevano protetto il mercato non bastano più, mentre la pandemia ha rinvigorito antichi problemi, come le estrazioni illegali. Ed è sul reale e dimostrabile grado di sostenibilità, lungo tutta la filiera, che i marchi si sfideranno
di Chiara Beghelli
I punti chiave
4' di lettura
Uno degli eventi più partecipati dell’edizione di Vicenzaoro che si chiude domani a Vicenza è stato un incontro organizzato da Assogemme sulla bellezza e importanza delle gemme naturali, in un mercato sempre più popolato da alternative sintetiche. La battaglia fra i due fronti è intensa: chi difende le gemme naturali ne sottolinea l’unicità, la genesi come creatura naturale antica di millenni, mentre i fan delle sintetiche ne evidenziano la maggior sostenibilità, citando, per esempio, i numeri delle tonnellate di terreno da sbancare per ottenere le gemme.
Entro il 2025 un terzo degli acquisti orientato dalla sostenibilità
Secondo un report McKinsey-Bof che esamina lo stato della sostenibilità nell’industria dei preziosi, entro il 2025 un terzo degli acquisti di gioielleria sarà influenzato dal grado di sostenibilità dei marchi, scelta condivisa soprattutto dalle generazioni più giovani, più attente al tema rispetto alle precedenti. Un’attenzione che potrebbe arrivare a mettere in secondo piano il dibattito sulla natura dei materiali preziosi e rendere dirimente, invece, il loro grado di trasparenza, tracciabilità, consumo di risorse, rispetto dei diritti umani, a prescindere dalle loro origini.
Nuovi valori si affacciano sull’industria dei gioielli, e accanto a design e carature, i marchi si sfideranno sulle certificazioni di eticità. Eppure le stesse certificazioni sono al centro di complesse problematiche, se non di aperti conflitti. Prendiamo una delle più note, il Kimberley Process, nato nel 2003 dopo lo scandalo dei “diamanti insanguinati” per cercare di bandirli dal mercato.
La necessaria revisione del Kimberley Process
Nell’ultima sessione, che si è tenuta fra il 20 e il 24 giugno in Botswana, sono emerse criticità che hanno spaccato due fronti: il tema era se considerare i diamanti russi, nel periodo di guerra in Ucraina, come diamanti da zone di conflitto, dunque farli rientrare nella casistica dei diamanti vietati. Alrosa, partecipata al 33% dal governo russo, produce circa un terzo dei diamanti mondiali, e nel 2021 la Russia ne ha esportati per 4,5 miliardi di dollari. Il fronte russo - costituito da Russia, Bielorussia, Kirghizistan, Repubblica Centrafricana e Mali - ha battuto quello occidentale - guidato da Ucraina, Unione europea, Australia, Regno Unito, Canada e Stati Uniti - e il tema non è stato neppure messo in agenda. Nell’ambiente, in realtà, si chiede da tempo una revisione del processo, per ampliare la troppo stretta dicitura di diamanti da conflitto, che per esempio oggi esclude quelli gestiti da governi corrotti. Lo stesso mancato fronte anti-russo ha spaccato il finora solido Responsible Jewellery Council (Rjc), ong nata nel 2005 e al momento leader del settore per la certificazione di eticità, abbandonato da nobili membri e infine anche dalla sua carismatica direttrice, Iris Van der Veken, che oggi guida la Watch & Jewellery Initiative 2030, sottoscritta fra gli altri da Cartier, Kering, Montblanc e Chanel.
Terremoto anche nel Responsible Jewellery Council
Il Rjc ha oggi circa 1.600 membri, ed è interessante sottolineare come quelli basati in Italia siano i più numerosi dopo gli Stati Uniti. Inoltre, nell’ultimo anno proprio l’Italia ha portato nel Rjc il più alto numero di nuovi membri. Eppure, a ben guardare la composizione di chi sottoscrive i protocolli richiesti dal Rjc, la metà sono produttori di gioielli, vale a dire marchi, mentre gli altri cruciali attori della filiera sono la minoranza: per esempio, gli estrattori di metalli e gemme rappresentano appena l’1%, anche se rappresentano le fasi più difficili da tracciare di tutta l’industria.
I problemi politici e ambientali delle estrazioni artigianali
Il mondo dei minatori artigianali, per esempio, che estrae il 20% dei materiali preziosi, è ancora miseramente tracciato e afflitto da sfruttamento di lavoro minorile, inquinamento, deforestazione. La certificazione Fairmined, assegnata dalla Alliance for Responsible Mining a organizzazioni di minatori artigianali, caratterizza l’1% di tutto l’oro estratto al mondo. Nel sud del Venezuela, come ha di recente denunciato Human Rights Watch, l’estrazione non regolata finanzia gruppi paramilitari, che rivendono l’oro in Paesi di transito come il Brasile, la Colombia e la Guyana, che a loro volta lo fanno arrivare in mercati “puliti” come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. In Africa questo tipo di attività, soprattutto dopo la pandemia e le sue conseguenze sull’impoverimento della popolazioni, ha rinvigorito queste pratiche, specialmente in Zimbabwe e Sud Africa, dove i minatori artigianali sono chiamati “zama-zamas”, cioè coloro che continuano a provarci.
Il nuovo fronte dell’Angola, le possibili soluzioni
Sempre in Africa, uno dei fronti da osservare con più attenzione, anche alla luce del futuro del Kimberley Process, è quello dell’Angola, che potrebbe diventare uno dei primi tre Paesi al mondo per produzione di diamanti entro i prossimi 5-10 anni. Nel 2021 la nazione ha prodotto circa 8 milioni di carati, per l’80% provenienti dalla miniera Catoca, controllata dalla russa Alrosa, quantità che si prevede quest’anno salirà a 10 milioni.
Secondo il Minerals Council l’oro e le gemme tracciate e certificate costano in media il 10-20% in più. Ma l’industria deve finalmente dimostrarsi responsabile in ogni sua fase, anche per soddisfare i suoi clienti. Intanto, in cerca di nuove certificazioni e più estesi e seri controlli, la gioielleria potrebbe imitare pratiche innovative e virtuose di altri segmenti, come la moda, dove il second hand, il riciclo, il rimodellamento, sono sempre più cercati e diffusi.
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