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Giovanni Bellini sulla spiaggia di Gabicce Mare

Vacanze in riviera, fino all’ultima pensione di Gabicce e una visita al Museo di Rimini, dove il «Cristo morto con quattro angeli» dell’autore veneto evoca le estati passate...

di Antonio Riccardi

Illustrazione di

5' di lettura

Rimini è la città più immaginata d’Italia. Intanto perché non coincide con il suo perimetro amministrativo; anzi, lo slarga di molto: inizia in un punto indistinto della costa adriatica, verso Nord (i lidi di Ravenna o forse più su, in vista di Venezia…), e finisce sulla via Panoramica di Gabicce Mare, alle pendici del San Bartolo, il promontorio che fa da cesura tra su e giù, tra la riviera di qua e il mare delle Marche.

Ma non è solo una questione di spazio, percepito in modo diverso da come lo definiscono le carte. Perché le carte sono fredde, si sa, se quel che c’è scritto sopra non rimane nel sangue di chi legge.

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C’è dell’altro. Oltre allo spazio c’è qualcosa che riguarda il tempo e, in particolare, il tempo dell’infanzia. Intendo dire che a Rimini, anzi lungo quel centinaio di chilometri di costa che arriva fino a Gabicce, hanno vissuto i loro sogni estivi diverse generazioni di bambini che lì, stagione dopo stagione, hanno preso le misure con la vita, con l’amore, con la morte. Nella compressione estiva i piccoli villeggianti di almeno quattro generazioni hanno formulato collettivamente, per via spontanea e in modo del tutto diverso da come è stato per altri luoghi di vacanza, una mappa dei sentimenti di straordinaria forza evocativa e persistenza. La mappa in questione, però, come sempre quando c’è di mezzo la memoria, è anche piena di insidie, di inganni, di tranelli.

Anche io per molte estati, dalla metà degli anni Sessanta, sono stato un bambino in vacanza sulla riviera romagnola, proprio al suo polo estremo, a Gabicce Mare, nell’ultima pensione prima della salita verso Monte.

Pensavo a quest’incrocio di ricordi e false piste che la vita, mettendoci alla prova senza alcun riguardo, ci sottopone di continuo, un sabato di qualche mese fa passeggiando tra le sale del museo di Rimini. Ero lì per la cerimonia nuziale di due brave amiche scrittrici, Silvia e Lorenza, ed essendo in anticipo ne approfittavo per rivedere una volta di più, senza fretta né metodo, le meraviglie sorprendenti di quel piccolo museo.

È stato davanti al Cristo morto con quattro angeli di Giovanni Bellini che ho ripensato alle mie lontane vacanze al mare e alle illusioni congenite nei ricordi dell’infanzia.

Il fatto che si tratti di uno dei vertici dell’opera di un Maestro tra i maggiori della storia della pittura, al centro di una stagione d’arte forse irripetibile, qui è solo un dato accidentale.

Nel dipinto, il corpo morto di Gesù, morbido e possente come quello di un eroe classico appena assopito, senza le contratture dovute ai patimenti della Via Crucis e del Calvario, appoggia su un basamento di marmo rosa ed è sostenuto da quattro angioletti. Ormai fuori dalla condizione di dolore, il cadavere sembra galleggiare nell’aria, contro uno sfondo nero e impenetrabile. I quattro sono in piedi sullo stesso basamento, come a dire che tra noi che guardiamo le figure e il fondo nero, il pauroso niente, c’è solo il piano della scena. I volumi dei corpi si “parlano” per trovare il punto d’equilibrio del quadro. Sul versante simbolico, invece, il Redentore già deposto, ma non ancora risorto, ha compiuto l’impresa e la sua carne emana energia, vigore naturale. Gli angeli fanciulli dicono senza dover dire che un accadimento prodigioso e impensabile è davvero accaduto. Tutto qui, ecco il frutto di una straordinaria maestria pittorica e di una altrettanto rara capacità di sintetizzare i simboli della fede.

Tutto facile, almeno a prima vista. Perché se osserviamo con attenzione i quattro angeli bambini qualcosa invece ci sorprende. Il primo, a destra di chi guarda, solleva mano e avambraccio del morto come se non avessero peso e intanto osserva, assorto si direbbe, la ferita lasciata dal chiodo nella carne appena increspata; il secondo, verso il centro dell’opera, con gli occhi chiari accesi dalla luce che illumina la scena entrando dal lato sinistro, sta prendendo fiato per suonare uno strumento che non si vede, nascosto dietro la spalla di Gesù; il terzo, con la veste bianca e la cinta rossa, è quasi del tutto occultato dal corpo del Cristo, che se non avesse il suo sostegno sarebbe disteso sul marmo della base, e a lui, invisibile in volto, è affidato il maggior compito evocativo e liturgico, cioè il gesto di alzare un corpo eucaristico.

Ma è il quarto bambino alato a sorprendere davvero. In piedi a ridosso del lato sinistro del quadro, le braccia conserte e lo sguardo perduto verso un punto imprecisato della scena, stupito forse più che non addolorato, sembra incrociare le gambe per via di una curiosa, parziale sovrapposizione con l’angelo che gli sta a fianco. È solo un inganno ottico, evidentemente, ma la caratterizzazione di questa figura è suggestiva e misteriosa, e forse dice ancor più di quanto deve dire la sua collocazione in questa Pietà.

Questo bambino, per come è o per come adesso ci appare, con la camiciola estiva senza collo, le maniche arrotolate sopra il gomito, è appena salito dalla spiaggia, alla fine di una giornata di sole e di mare. All’improvviso si ferma, come incantato, o forse punto, da chissà quali pensieri…

Raccontare, si sa, vuol dire che qualcosa di sé, anche poco, si finisce per dirlo ad altri. Che si racconti a voce oppure scrivendo non fa molta differenza. In ogni modo, chi racconta mette in atto piccole strategie di nascondimento della vita reale – allusioni, improvvise iperboli, inaspettate quando sospette e accorate confessioni – perché chi legge o ascolta sia portato a chiedersi: possibile, sarà vero? Difficile sapere cosa ci sia di vero quando qualcuno racconta, anche se lo fa nel modo più dettagliato e scrupoloso.

In un certo senso gli scrittori sono bugiardi (e tra questi più ancora lo sono i poeti grazie alla loro astuzia persuasiva, per dirla con il grande Attilio Bertolucci), ma almeno lo fanno per una buona ragione: cercano di venire a patti con la propria esistenza senza subirla troppo e per questo le impongono una forma, un ordine, una cronologia, una memorabilità usando una storia esterna, apparentemente lontana.

Già, venire a patti con la vita, alla fine, è la cosa che conta, anche per rendere più belli e durevoli i ricordi. Come se fossero stelle puntate sulla volta di un cielo estivo, immutabile, e noi fossimo nell’aria tiepida di una notte appena cominciata, prima di un altro giorno di vacanza sulla riviera romagnola, un’altra volta dopo tanti anni.

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