Giurisprudenza in crisi: in dieci anni matricole dimezzate
Corsi di laurea distanti dalle richieste del mercato. Anche la professione di avvocato ne risente
di Eugenio Bruno e Valeria Uva
3' di lettura
Se non in crisi almeno in affanno. È così che la professione di avvocato si presenta agli occhi dei ragazzi alle prese con la programmazione del loro futuro. A dirlo sono sia i dati di matrice universitaria, sia i feedback del mercato del lavoro. Complice un impianto formativo che è ancora imperniato pressoché interamente sulla laurea magistrale a ciclo unico di durata quinquennale e che non sembra tenere conto delle nuove esigenze professionali emerse sul campo. Tant’è che la specializzazione nelle nuove frontiere del diritto è demandata in via esclusiva ai master post lauream.
In calo matricole e laureati
In attesa di conoscere i numeri relativi all’anno accademico appena iniziato (e all’esame di abilitazione concluso la settimana scorsa) ci concentriamo sull’ultima fotografia disponibile: quella relativa al 2018/19. Da cui emergono tutte le difficoltà dei corsi di laurea in discipline giuridiche. Sin dall’inizio del percorso. È ormai da una decina d’anni che gli immatricolati a giurisprudenza, oppure alla sua variante triennale in scienze giuridiche, continuano a scendere: nel 2008/09 erano il 10,5% di tutte le matricole, oggi sono il 6,9 per cento.
Questo fenomeno sta facendo sentire i suoi effetti anche sugli iscritti totali. Scendono anche loro, sebbene più lentamente. L’ultima rilevazione li dà all’8,4%; dieci anni prima erano al 10,5.
Le difficoltà si manifestano anche alla fine del percorso. Complice una carriera universitaria accidentata che vede, al tempo stesso, i fuori corso stabilmente al di sopra del 30%, produciamo sempre meno laureati in discipline giuridiche: appena il 6,1% di tutti i laureati.
Gli sbocchi occupazionali
A complicare lo scenario per gli aspiranti avvocati ci pensano anche gli ultimi numeri sugli sbocchi occupazionali legati alla professione. Un focus che AlmaLaurea ha aggiornato per Il Sole 24 Ore del Lunedì analizza le performance formative dei laureati di secondo livello del 2013, che a cinque anni dal titolo dichiarano di svolgere la professione di avvocato. Dopo aver sottolineato che si tratta di una figura a prevalenza femminile (59,0%), intrapresa da chi ha alle spalle una famiglia di laureati nel 38,5% dei casi (contro il 30,6% complessivo), il report fornisce due buone notizie: sia età media alla laurea sia percentuale fuori corso risultano infatti inferiori alla media. Ma l’ottimismo dura poco.
La loro entrata sul mercato del lavoro è quasi sempre posticipata: l’84,5% ci riesce solo dopo l’università(rispetto al 69,9% di media) e la prima occupazione arriva a 22,5 mesi dalla laurea, il doppio degli altri laureati di secondo livello. Complice in questo caso anche il percorso accidentato verso l’abilitazione: prima di tentare la “lotteria” dell’esame, servono infatti 18 mesi di praticantato (solo negli ultimi anni prende timidamente piede la prassi di svolgerne sei già durante l’università).
Le nuove frontiere del lavoro
Il lavoro che poi i laureati in giurisprudenza trovano nella quasi totalità si svolge in ambito privato (98,9% rispetto al 74,2%), spesso come liberi professionisti (89,3% anziché 21,1%) e soprattutto nella consulenza legale (per il 92,6% del campione). Con una retribuzione di 1.204 euro netti mensili contro i 1.459 totali.
Del resto in uscita dai 5 (lunghi) anni di corso, ai laureati manca una specifica formazione subito spendibile sul piano professionale. Non c’è infatti corrispondenza con le specializzazioni richieste dal mercato: dall’M&A alla blockchain, dalla privacy al restructuring.
«Novità dirompenti pressoché sconosciute in gran parte degli atenei» commenta Antonio De Angelis, neoeletto presidente dei giovani avvocati di Aiga. «Inoltre si potrebbero rendere facoltativi alcuni esami “storici”, come istituzioni di diritto romano o filosofia del diritto - continua - per lasciar posto a temi come l’inglese legale o, più urgente di tutti, il diritto delle nuove tecnologie». «Senza contare che chi dopo la laurea investe sulla specializzazione - conclude - non si ritrova poi un titolo giuridicamente spendibile».
Il riferimento è al regolamento che assegna valore legale alle specializzazioni: il testo del 2015 è stato bocciato dal Consiglio di Stato ed è tuttora in fase di riscrittura.
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