Giustiziato perché fumava un sigaro
di Franco Cardini
3' di lettura
— IL POVERO SOLDATO… —
«Il povero soldato
è condannato a morte,
lontan dalla consorte,
vicino al colonnel».
Sono versi abbastanza sgangherati d’una canzone cantata sul ritmo, quasi una nenia, dei cantastorie di paese. Versi che non hanno nulla della fascinosa solennità di quei Canti con la maiuscola che parlano di Libertà, di Patria, d’Onore, tutta roba con le maiuscole anche quella. In guerra ci si muore: e di solito ci si muore anche male, scomodamente e scompostamente. Il resto è maquillage.
Ormai la visione secondo la quale il primo e il secondo conflitto mondiali appartengono entrambi a una lunga “guerra dei Trent’Anni” 1914-1945 (sempre che non si tratti in realtà di una “Guerra dei Cent’Anni” ancora in corso, come parrebbe guardando al Vicino Oriente) sembra essere arrivata perfino ai media e ai programmi di scuola media. Ma, se dal 1939 al 1945 il pianeta intero visse un’immensa, spaventosa tragedia a misurar la quale sono sufficienti i campi di sterminio e le esplosioni nucleari, tra ’14 e ’18 le popolazioni dei paesi in guerra, pur duramente provate, rimasero ai margini delle autentiche sofferenze. Lo strazio, il macello, l’abominio senza nome lo dovettero sopportare quelli rivestiti a forza di un’uniforme e mandati al macello nell’inferno delle trincee, letteralmente tra il sangue e i rifiuti.
D’altronde, di quel sangue e di quei rifiuti si tese a dimenticarsi presto: specie in Italia, dov’essi furono circonfusi della porpora del sacrificio e dell’oro della gloria. Dopo la passione dell’immediato dopoguerra, la “Vittoria Mutilata”, l’impresa di Fiume, il Biennio Rosso e lo squadrismo, le Terre Irredente vennero definitivamente restituite alla Grande Madre, il Pericolo Rosso venne sconfitto e l’Italia si avviò verso una Nuova Era di potenza e di prosperità. O, almeno, così molti credettero o credettero opportuno credere. Il dolore e la miseria si erano ormai sublimati nella Vittoria.
Proprio da qui prende le mosse il racconto di Paolo Malaguti, Prima dell’alba, avviato nell’ottobre di cento anni fa sul fronte dell’Isonzo e subito audacemente rimbalzato a un gelido primo mattino di fine febbraio del 1931, IX dell’Era Fascista, allorché il solerte ispettore Malossi della questura di Firenze viene svegliato bruscamente perché c’è un morto trovato accanto alla linea ferroviaria verso Calenzano, sulla Firenze-Prato. Un banale incidente, un tizio d’una certa età evidentemente caduto dal treno…o no? Il fatto è che quel corpo senza vita di un anziano, elegante signore, si rivela in realtà uno scomodo Cadavere Eccellente. Malossi fiuta subito il grosso guaio: e si mette diligentemente a scavare attorno alla vita e alla personalità del defunto tra crescenti pressioni, tentativi di depistaggio, inquietanti segnali che gli provengono dai suoi superiori e, indirettamente, da molto più in alto.
In questi casi, chi comincia a cercare con molta reticenza eppure con sempre maggior interesse, di solito finisce con l’imbattersi in quello che magari non avrebbe mai voluto trovare. Le indagini del solerte funzionario lo porteranno all’indietro nel tempo, giusto fino a quattordici anni prima: alla tragica pagina di Caporetto e alla reazione rigida e sovente insensata d’un’alta gerarchia militare che non esitava a «mantenere la disciplina» anche mandando al muro dei poveracci per la più innocente delle infrazioni. Ed eccoci gettati nel gorgo senza fondo dello scontro fra cattiva coscienza, ottusità, inadeguatezza e delirio d’onnipotenza. Da qui il racconto si snoda e s’intreccia sui due piani della disfatta del ’17 e dell’indagine nell’Italia vittoriosa e ordinata dell’Anno IX con le sue marziali cerimonie.
Quel che Malossi ricostruisce è la storia di un ragazzo fucilato nell’anno di Caporetto. Non era un disertore, non era un ribelle, non era un obiettore, non era un «Uomo-Nossignore». Lo giustiziarono perché si era acceso un sigaro. Così, come tanti, che magari erano rei solo di avere scritto a casa che quella roba del morire per la patria era tutta una balla. Ordine, obbedienza, disciplina: nell’inferno del regio esercito dei generali inetti e dei poveri agricoltori e operai travestiti da soldati. La guerra maledetta di gente mandata a crepare sotto il fuoco nemico e con la minaccia di venir fucilata mentre i bollettini di guerra e i giornali sgranavano la litanìa della Patria e dell’Onore. Ma insomma, che cosa c’entra la storia del soldatino preso a scudisciate e fatto poi «passar per le armi» da un Signor Generale freddo e impassibile come una divinità irata con quella d’un elegante signore deceduto in un incidente ferroviario quattordici anni dopo sulla Firenze-Prato?
Dall’assurdità tragica delle trincee dell’anno di Caporetto e del gelido macellaio Cadorna, con i «tagliani» contro i «kakani», al plumbeo quotidiano d’un’Italia fascista degli anni del consenso, Malaguti ci guida con una prosa ferma, dura, diretta, nei meandri di un racconto poliziesco mozzafiato.È l’autore di La reliquia di Costantinopoli del 2015, finalista allo Strega. Uno scrittore meno che quarantenne, da tenere d’occhio.
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