Gli aiuti di Stato non danno una mano solo a chi li riceve
Gli economisti non amano molto parlare di politica industriale, anche perché è difficile definire cosa sia e molte cose si confondono sotto il suo cappello.
di Giovanni Tria
7' di lettura
Gli economisti non amano molto parlare di politica industriale, anche perché è difficile definire cosa sia e molte cose si confondono sotto il suo cappello. Tuttavia, essa è il tema del giorno, soprattutto perché l’amministrazione Biden con l’approvazione dell’Inflation reduction act e il Chips and science act ha varato un programma sostenuto da molte centinaia di miliardi di dollari di sussidi federali a imprese e famiglie, concentrati in pochi anni, con lo scopo di sviluppare rapidamente un’industria basata su tecnologie verdi, la produzione di energie rinnovabili e di semiconduttori in modo tale da affrancare il più possibile gli Stati Uniti da forniture estere. Questi programmi sono stati giudicati da molti commentatori, e soprattutto dai Paesi europei, come protezionistici e discriminatori sia perché molti dei sussidi previsti sono ristretti a beni, come è il caso delle auto elettriche, prodotti negli Usa e con componenti prodotti nello stesso Paese, sia perché si teme che spingerà molte produzioni a spostarsi negli Stati Uniti per godere in vario modo del massiccio programma di aiuti. Si tratterebbe, quindi, di una scelta che porterebbe a un livello più insidioso l’approccio protezionista dell’amministrazione Trump con il rischio di determinare una risposta nella stessa direzione da parte dell’Europa che ha già avviato il dibattito sulla necessità di allentare le regole comunitarie che sostanzialmente impediscono gli “aiuti di Stato” alle imprese europee. Poiché dal lato asiatico la presenza dello stato nel sostegno all’economia non manca di certo, il rischio è che si apra un periodo di guerre commerciali in cui l’interesse principale dei vari Paesi si concentri più sul fine difensivo di come ritagliarsi fette di mercato che sul fine positivo di aumentare la produzione di ciò che è necessario allo sviluppo sostenibile. A conferma di ciò, basta guardare alla piega che sembra già prendere il dibattito interno all’Europa su come rendere meno rigide le regole comunitarie che limitano gli aiuti di Stato. Sotto la pressione dell’azione americana, sembra già aprirsi una spaccatura tra un fronte favorevole a consentire massicci aiuti di Stato per sviluppare industrie competitive in settori strategici al fine di ottenere maggiore autonomia di fronte a un mondo che si sta frammentando, e un fronte che frena nella liberalizzazione perché teme che gli Stati europei con maggiore capacità finanziarie possano avvantaggiare le proprie industrie.
Se questo è il quadro, mi sembra che sotto il cappello della politica industriale si confondano molte cose diverse. Noi siamo di fronte a un tema globale fondamentale che è quello di aumentare il tasso di investimento in tutti Paesi per sostenere la crescita e per aumentare l’offerta. Nonostante l’eccesso di liquidità creato fin da prima della pandemia, il tasso di investimento globale è stato insufficiente, ed è ancora insufficiente, a fronte dell’obiettivo di aumentare l’offerta di energia, soprattutto di quella rinnovabile, di accelerare la transizione ecologica nei sistemi di produzione, di garantire un’offerta adeguata di beni alimentari e medicine, di adeguare i sistemi di trasporto, di sostenere, in breve, la vita di una popolazione mondiale cresciuta troppo. L’inflazione che si riaffaccia nelle economie di tutto il mondo denuncia essenzialmente questa carenza generale di “offerta”, non il contrario. Tutto ciò implica che il mercato non è stato in grado da solo di aumentare il tasso di investimento e indirizzare le risorse per aumentare l’offerta di beni e servizi nella direzione necessaria. Ma se l’obiettivo è aumentare la produzione di ciò che serve, ciò non implica che si debbano accompagnare i sussidi statali con norme discriminatorie e protezioniste. Ovviamente, se uno Stato è in grado di sussidiare maggiormente un’industria innovativa, questa potrà investire di più e crescere di più, ma lo spillover di questa crescita potrà beneficiare altre imprese, anche in altre parti del mondo. Ciò che danneggia tutti sono le barriere al libero commercio e la discriminazione nell’acquisto di tecnologie e componenti da altri Paesi. Il danno non viene dal maggiore o minore aiuto allo sviluppo della produzione e delle tecnologie in un Paese, che al contrario può attivare moltiplicatori anche in altri Paesi. La crescita della Cina ha trainato la crescita di tutto il mondo. Se la Germania sviluppa maggiormente la sua industria dell’auto, le imprese italiane che forniscono componenti se ne avvantaggiano, e i maggiori consumi tedeschi trainano anche gli altri Paesi, se si mantengono aperti i mercati. Non è vero che ci sarebbe più crescita nel mondo se tutti i Paesi si astenessero dal ricorso ad aiuti di Stato solo perché la competizione sarebbe più corretta. Probabilmente se fossimo in grado di impedire a Stati Uniti e Cina di aiutare le proprie industrie noi non staremmo per questo in migliori condizioni, probabilmente staremmo tutti peggio. Siamo sempre di fronte alla solita domanda: l’obiettivo è combattere le disuguaglianze o avere più benessere per tutti? Gli obiettivi sono diversi anche se non sempre sono alternativi. Tradotto in politica europea significa che la risposta dovrebbe certamente essere quella di attivare programmi di sostegno comunitario all’industria di tutti i Paesi membri con fondi europei, ma ciò non dovrebbe essere alternativo al dare maggiore libertà di azione anche a livello nazionale sull’uso di fondi nazionali.
Il parlamento sembra aver raggiunto un accordo di massima sulla legge delega per la riforma fiscale. Il punto più condiviso è quello che riguarda la necessità di ridurre la pressione fiscale diretta, cioè l’Irpef, sulle classi di reddito medio basse. Ma per ciò che riguarda la dimensione possibile di questa riduzione, un tema che sembra dimenticato nel dibattito è quello del possibile spostamento del prelievo dalle imposte dirette (Irpef) alle imposte indirette (Iva), cioè dai redditi dei fattori produttivi, che nel caso dell’Irpef sono sostanzialmente i redditi da lavoro, oltre che da pensioni, alla tassazione dei consumi. Il ministro Tremonti definiva questo spostamento “dalle persone alle cose”. Una dimenticanza che è molto strana perché, in un periodo di europeismo condiviso, si elude proprio una raccomandazione tradizionale della Commissione europea. Una raccomandazione il cui fondamento sta nel fatto che questo spostamento del prelievo favorisce la crescita a parità di pressione fiscale complessiva. La ragione è che si ridurrebbe il cuneo fiscale, che entra nei costi di produzione, determinando un aumento delle remunerazioni al netto delle tasse. Ma questo spostamento di prelievo sarebbe anche utile alla crescita perché determina una “svalutazione fiscale”, poiché l’Iva non grava sulle esportazioni, mentre colpisce i consumi di beni e servizi importati in egual misura rispetto a quelli prodotti sul territorio nazionale. In tal modo si recupera competitività internazionale. Non è un caso, inoltre, che nell’economia globalizzata, per tassare localmente i profitti delle multinazionali, si stia valutando di prendere come riferimento le loro vendite nei vari Paesi. E anche nelle discussioni sulla tassazione delle ricchezze si mette in rilievo che quelle personali, in vario modo legalmente o non legalmente occultate, si riflettono nel livello di vita dei beneficiari
al momento del consumo.
Il fatto rilevante è che seguire questa strada permetterebbe oggi una riduzione del prelievo Irpef sui redditi medio-bassi doppio o anche triplo rispetto a quello di cui si discute e ciò faciliterebbe la definizione del “metodo” con il quale ridurre in misura percepibile l’imposizione diretta sulle classi di reddito medio e medio-basso. C’è da decidere, infatti, “come” operare la correzione e le sue dimensioni. In altri termini, vi è da una parte il problema di come finanziare la riduzione del prelievo Irpef e dall’altra il problema di definire la struttura del prelievo, il grado di progressività e come applicarla. Su questo secondo punto, il dibattito politico si è concentrato su due possibili alternative ben descritte, come hanno ricordato Paladini e Visco sul Sole del 30 giugno, nell’ottimo rapporto presentato in una audizione al Parlamento dal direttore generale del Dipartimento delle Finanze del Mef, la professoressa Fabrizia La Pecorella, e ben studiate nello stesso Dipartimento fin dal 2019. La prima alternativa consiste essenzialmente nella riduzione, da 5 a 3, del numero di aliquote applicate per scaglioni di reddito. La seconda ipotesi è quella di passare al cosiddetto modello tedesco, cioè disegnare una curva continua di aliquote marginali, che coinciderebbero sostanzialmente con quelle medie effettive, da applicare per ogni singolo livello di reddito. Avendo già preso posizione su questa rubrica a favore di questa seconda alternativa (15 agosto 2020), ne richiamo i motivi fondamentali. Le maggiori attrattive del modello tedesco risiedono nella sua trasparenza e nella sua flessibilità. Trasparenza perché ogni percettore di reddito saprebbe, senza fare calcoli personali, quale percentuale del suo reddito deve versare allo Stato, che è ben diversa da quella che si legge nella sua aliquota marginale. L’argomento di chi parla di complicazione “algoritmica” o matematica per la determinazione della curva delle aliquote è fuorviante perché il compito del calcolo è dell’amministrazione fiscale, e non è complicato perché basta decidere quale debba essere, mentre al contribuente verrebbe solo comunicata la percentuale effettiva del suo reddito che deve pagare. Quanto alla flessibilità, va considerata da un duplice punto di vista. Permette di decidere in modo mirato i livelli di reddito da beneficiare oggi con una riduzione di prelievo, disegnando con precisione la curva della progressività, ma permette anche con facilità di appiattire progressivamente, in futuro, la curva delle aliquote fino al livello desiderato di reddito. In altri termini, sarebbe facile spostare verso livelli superiori di reddito la progressività del prelievo dettato dalla Costituzione, man mano che l’equilibrio della finanza pubblica lo permetterà e secondo le scelte politiche discrezionali che sono alla base della democrazia. In ogni caso, deciso il metodo, l’importante è ridurre progressivamente in misura significativa la pressione fiscale sui redditi medi e medio-bassi. Lo si dice da decenni, almeno da quando l’inflazione alta fece lievitare i redditi nominali, ma non quelli reali, con la conseguenza che le aliquote concepite per redditi medio-alti finirono per colpire anche i medio-bassi. Il dibattito sul fiscal drag, come venne chiamato il fenomeno, fu intenso ma senza effetti rilevanti. La fame di gettito fiscale a fronte di spesa pubblica crescente, purtroppo non per investimenti, ha fino a oggi sempre collocato questa esigenza di correzione del prelievo nella cartella dei buoni propositi.
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