dimore inglesi

Gli alabastri e i Rubens, meraviglie di Holkham

di Alvar González-Palacios

La spettacolare Holkham Hall a Norfolk, in Inghilterra, progettata dall’architetto William Kent in collaborazione con il suo proprietario, Thomas Coke, conte di Leicester e con Lord Burlington. Iniziata nel 1734, la grandiosa villa venne terminata nel 1764

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Forse uno dei maggiori contributi dell’Inghilterra alla civiltà occidentale sono le meravigliose case costruite in quasi tutte le regioni del paese. Alcune di queste ville sono talmente grandiose che bisognerebbe dirle palazzi, ma gli inglesi anche all’epoca del loro maggior splendore fra il tardo Cinquecento e tutto l’Ottocento hanno sempre preferito definirle con un tipico understatement country houses, case di campagna.

Holkham, come altre di queste grandi dimore, fu costruita come sede di una famiglia importante, quella dei Coke. La maggior parte dei grandi titoli inglesi avevano anche casa a Londra, ma la sede familiare era sempre quella nel centro delle loro proprietà, a volte lontano dalla capitale. Quel grande palazzo è frutto di circostanze forse casuali fra tre individui particolarmente fortunati di incontrarsi nel momento giusto delle loro diverse esistenze. Il futuro conte di Leicester Thomas Coke (1697-1759, avrà il titolo nel 1744) era erede di una grande fortuna e quindi il cliente ideale per William Kent (c.1685-1748), che incontrò a Roma e dal quale non si separò mai del tutto. Viaggeranno insieme durante questi anni italiani andando ad esempio a Firenze dove incontrano e saldano un pagamento a Giovan Battista Foggini, il migliore scultore fiorentino dell’epoca. Si recheranno anche a Venezia, dove il giovane si fa ritrarre da Rosalba Carriera. Ovunque Coke acquista libri e manoscritti importanti, ancora conservati in bellissime rilegature nella grandiosa biblioteca che tempo dopo Kent disegnerà per Holkham. Coke scrive allora, a diciott’anni: «one of the greatest ornaments to a gentleman is a fine library». Il suo Grand tour dura sei anni: va in Sicilia prima di molti e si spinge fino a Malta. Nel 1716 acquista un magnifico marmo di notevoli dimensioni raffigurante il padre dell’imperatore Lucio Vero, Elio Vero, e anche una famosa statua di Diana che – il fatto è più sussurrato che documentato – gli assicura addirittura un breve soggiorno in prigione per esportazione illecita (comunque portata a termine). Non aveva ancora vent’anni. Dire quali sono i principali acquisti che poi continua fino alla sua morte attraverso diversi agenti implicherebbe una lunga lista che include alcuni grandi nomi: uno stupendo Rubens con un soggetto raro, la Sacra Famiglia in ritorno dall’Egitto con Gesù che cammina come un infante di quattro o cinque anni, quadro di una forza e conservazione ineguagliabili, e non certo inferiore a quello che deve essere stata una delle ultime acquisizioni del Conte, Giuseppe che respinge la moglie di Putifarre, opera eccelsa di Guido Reni. La composizione, basata su uno schema geometrico dissimulato dalla delicata resa pittorica dei colori e della soavità dei tessuti, è uno dei più bei quadri dell’artista. Non a caso è stato acquistato una ventina di anni fa dal Fitzwilliam Museum di Cambridge, ma rimasto in sito per conservare intatta questa mirabile raccolta (segno di civiltà che forse sarebbe bene tenere a esempio nel nostro paese). Non tutto quello che conosciamo dalla storia familiare e da vecchi documenti è stato ritrovato a Holkham (vedute di Vanvitelli, quadri di Benedetto Luti, di Sebastiano Conca... la lista non è breve. Se esiste ancora, un gran quadro del non famosissimo Andrea Procaccini mancano invece quattro dipinti di Pietro da Cortona e qualcosa del gran napoletano Francesco Solimena).

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Ciò che impressiona del lavoro di Kent non è solo l’esterno, immaginato come un tempio classico con timpano e colonne corinzie circondato da due ali che si ripetono sulle due facciate. È sorprendente che l’aspetto grandioso non sia offuscato dall’impiego, anziché della pietra, di strani mattoni di color giallognolo, che adottano diverse forme e dimensioni. Di lì a dire, come fa Nigel Nicolson, che Holkham è così functional come una scuola di equitazione prussiana appare ingiusto, mentre lo stesso scrittore (nello stesso volume, Great Houses of Britain del 1965) afferma che il palazzo sia «the finest Palladian interior in England». Questa volta non gli si può dar torto: Holkham è composto da una infinita teoria di stanze concepite come biblioteche, sale da pranzo, stanze da letto, tribune e gallerie di sculture, sempre regali mai respingenti. Conserva perlopiù i tessuti originali che ammorbidiscono le aule decorate come templi abitabili. Il Marble Hall che immette nel palazzo è concepito come un solenne edificio romano, alto quindici metri e ornato di colonne del bell’alabastro rosa venato di cinabro di Staffordshire (quanto di più simile agli antichi alabastri orientali adoperati dai romani). L’idea originale per questo sublime interno è – come oggi si ammette – l’opera congiunta del proprietario, del suo amico il conte di Burlington e del protetto di ambedue William Kent, di cui esistono una serie di appositi progetti databili attorno al 1726, vale a dire ad un anno in cui Robert Adam, al quale l’insieme fa pensare, non era ancora nato. Il grandioso Hall occupa in altezza due piani del palazzo. Le pareti, alte quanto il primo piano, sono rivestite dello stesso alabastro e servono da sorprendente basamento per le colonne, il tutto reso ancora più stupefacente da una volta a cassettoni ispirata a quella del Panteon. Il pianterreno si congiunge al piano nobile con una scalinata di marmo bianco che porta direttamente al Saloon (o salone), con uno splendido parato in velluto controtagliato color di vino. I due grandi tavoli parietali dorati sono ricoperti di lastre antiche di mosaico acquistate a Roma dal Cardinal Furietti. Nome famoso fra i conoscitori dell’arte antica: fu lui ad esempio a possedere i due Centauri in bigio morato oggi in una delle sale del Campidoglio a Roma, scoperti nel 1736 a Villa Adriana. La stanza di Holkham è coperta di grandiosi dipinti come quello di Rubens, già menzionato, e il Ritratto del Duca di Arenberg di Van Dyck.

Holkham sorge per un incontro fatidico, forse casuale. Durante il suo soggiorno a Roma, Kent, uno dei più grandi architetti inglesi dell’epoca, ebbe la fortuna di conoscere Richard Boyle, Lord Burlington, uno dei grandi propulsori del gusto italiano in Inghilterra seguendo l’esempio di Andrea Palladio. A Kent occorreva anche trovare un cliente ricco che fosse interessato alle idee di un grande innamorato dell’architettura qual era Burlington. Il cliente, cioè quello che sarà il proprietario del capolavoro di Kent, Holkham, era già amico di Burlington. Le circostanze erano dunque propizie e qualche anno dopo, quando i tre personaggi furono tornati in patria, era quasi inevitabile che la dimora si facesse. Ci vollero più di trent’anni, tra il 1734 e il 1764, perché Holkham fosse finito. Ma purtroppo né il suo ideatore né il suo proprietario ebbero la fortuna di vederlo completato. Thomas Coke, il primo Earl di Leicester morì a 62 anni lasciando però una vedova intelligente che riuscì a portare a termine la dimora come Lord Leicester e William Kent l’avevano immaginata (e Burlington approvata). Kent era già morto dal 1748, Burlington scomparve nel 1753 ma tutti i progetti erano in buona parte finiti. Un bravo architetto locale, Matthew Brettingham, a cui si può rimproverare solo una eccessiva vanagloria, era lì a seguire attentamente le idee di Kent e l’immaginazione di Burlington, anche se attribuendo buona parte di quel che altri avevano pensato a se stesso e facendo tutto quello che poteva fare per diventar ricco.

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Se il primo Earl of Leicester venne effigiato da un pittore noto ma non particolarmente come ritrattista, Francesco Trevisani, il suo erede Wenman Roberts, che assunse il nome di Coke solo nel 1750, non fu ritratto da nessuno degno di nota. Wenman ebbe a sua volta un figlio, che nacque già come Thomas William Coke e divenne Earl of Leicester subito dopo, per morire quasi novantenne nel 1842, ciò che assicurò una grande continuità alla famiglia. Inoltre il secondo grande proprietario di Holkham, Thomas William, era assai avvenente, al punto da essere considerato «a very pretty man» da alcuni, o il «bel Anglais» da altri. Piacque molto alle signore, come era piaciuto molto a sua zia la Contessa vedova di Leicester che sempre lo protesse. Anche se era più noto per la sua bellezza che per la sua connoisseurship, si dimostrò un uomo che sapeva cogliere immediatamente le molte opportunità che gli si presentarono in vari campi.

Lo si capì subito, quando volle esser presente nel 1772, non ancora ventenne, alle nozze del pretendente al trono d’Inghilterra, the Young Pretender, a Macerata. Sapeva dove doveva essere al momento opportuno. La sua bellezza l’aiutò subito, e piacque molto a quella che i legittimisti consideravano la nuova regina d’Inghilterra, la Contessa di Albany, Louise di Stolberg-Gedern. La principessa ordinò al più famoso ritrattista d’Europa, Pompeo Batoni, un magnifico ritratto di quel che alcuni consideravano, se così si può dire, il suo favorito. Si tratta di uno dei migliori ritratti di società dell'intero secolo. Il suo costume è probabilmente quello, alla Van Dyck, da lui stesso indossato in un ballo in maschera dato a Roma nel 1773 dalla Contessa di Albany. Nella tela il giovane adotta quasi la posa dell’ Apollo del Belvedere , vestito di crema e di cremisi con la mantella bordata di ermellino, ai piedi il fedele épagneul lo guarda adorante. Alle sue spalle, su un alto basamento, una statua romana già famosa all’epoca, la Cleopatra (oggi meglio definita Arianna ) del Vaticano, con le sembianze un po’ mutate per farla somigliare alla moglie dell’ultimo degli Stuart. Il quadro, firmato nel 1774, quando il giovane aveva appena compiuto vent’anni, gli venne poi regalato ed è considerato universalmente un capolavoro che non trema nemmeno davanti al ritratto dello stesso giovane di mano di Gainsborough, ambedue – inutile dirlo – a Holkham. La Contessa, come si stabilisce nella scritta sul quadro, lo donò a «Mr. T.W. Coke dopo Viscount Coke and Earl of Leicester»: lo spiritoso Horace Walpole scrive: «Il giovane Mr. Coke ritorna dai suoi viaggi innamorato della regina del Pretendente, che ha voluto ordinare il suo ritratto».

Il giovane Coke, comunque, fece sempre vita brillante a Roma e riuscì a collezionare diversi cammei antichi (e anche calchi moderni). Fu cliente del famoso Thomas Jenkins (famoso anche per la sua relativa disonestà), dal quale acquistò un cammeo di Claudio e una sardonica di Minerva. Certamente il celebre mosaico antico raffigurante la lotta di un leone con un leopardo, oggi sopra il camino della grande biblioteca di Holkham, venne acquistato nel 1774. Jenkins lo cita in una sua celebre lettera del gennaio di quell’anno. Coke afferma che proviene dalla villa di Adriano. Non è proprio così, ma comunque si trovava nel teatro romano di Gubbio ed è lavoro di grande qualità, modello subito copiato con infinite varianti dai micromosaicisti romani dell’epoca come Cesare Aguatti. Mr. Coke aveva anche comprato un famoso anello ben noto ancora ai primi dello scorso secolo che sarebbe stato trovato nella tomba del senatore Nonius, e fu probabilmente lui a ordinare allo scultore inglese Thomas Banks la Morte di Germanico, un bassorilievo molto stimato dalla critica moderna come una delle prime opere neoclassiche eseguita in Europa – infatti i paragoni col pittore francese Louis David possono essere segnalati.

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