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Cosa sono e perché fanno discutere gli eurobond, spiegato in parole semplici

Cosa sono, e perché dividono tanto i Paesi dell’Europa, gli strumenti in discussione all’Eurogruppo?

di Maximilian Cellino

Mafia ed eurobond, l'attacco di Die Welt fa infuriare l'Italia

5' di lettura

Eurobond, a volte basta la semplice parola per creare speranza da una parte, ma anche per indurre l’altra ad erigere barricate invalicabili. L’idea di un titolo obbligazionario emesso in «comune» all’interno dell’area euro resterà per il momento un’illusione, come si è visto anche dalla piega che hanno preso le ultime riunioni dell’Eurogruppo chiamato a decidere misure di sostegno per affrontare l’epidemia di coronavirus. È quindi più che mai opportuno cercare di capire quale strumento si celi dietro questo nome e perché la sua semplice evocazione provochi un conflitto pressoché infinito in seno all’Unione.

Debiti e bond
È forse utile ricordare anzitutto che per finanziare i servizi che garantisce ai cittadini, le pensioni, gli investimenti e le spese correnti ciascuno Stato spende in genere una cifra maggiore rispetto a quanto riscuote attraverso le imposte versate dagli stessi contribuenti, siano essi famiglie o imprese. La differenza viene in gran parte coperta chiedendo in prestito il denaro necessario ed emettendo in cambio obbligazioni (bond appunto, in lingua anglosassone) che garantiscono il pagamento di interessi oltre alla restituzione a scadenza dell’ammontare ricevuto al momento della sottoscrizione.

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C’è tasso e tasso
Qui sta il primo nodo della questione, perché gli interessi variano a seconda della durata del prestito (più lungo è, e in genere maggiori sono le cifre da versare), ma soprattutto in base all’affidabilità di chi ha emesso il titolo. O meglio, alla percezione che si ha fra gli investitori della solidità di un emittente e di quanto sia in grado poi di versare con regolarità gli interessi e di restituire l’intero debito. In questi casi, per dirla in gergo tecnico, si valuta il “rischio di credito” di chi presta denaro, cioè lo Stato.

È dunque evidente che un Paese come l’Italia, con un debito pubblico rilevante (oltre 2.400 miliardi di euro) soprattutto se confrontato con la ricchezza nazionale (Pil) e con il debole ritmo di crescita dell’economia, è destinato a pagare di più rispetto a un Paese del nord Europa con un bilancio meno pesante da portare sulle spalle e magari uno stato più florido dell’economia.

Il famigerato «spread»
La differenza che si paga in termini di interessi su strumenti simili (in genere si prendono i titoli con scadenza decennale) è ormai ben nota a tutti gli italiani e si chiama genericamente spread. Quello che riempie le pagine dei giornali si riferisce allo scarto tra i BTp italiani (il cui rendimento sui 10 anni viaggia al momento intorno all'1,5%) e i solidissimi Bund tedeschi (con tassi addirittura negativi) ed è anche un indice indiretto della tensione che si avverte sui titoli del Tesoro e sul nostro Paese.

La soluzione «comune»
Un titolo emesso non da un singolo Paese, ma da un'entità comune europea, un «Eurobond» quindi, appianerebbe queste differenze e il suo prezzo si avvicinerebbe in teoria più a quello tedesco che a quello emesso dall’Italia o da un qualsiasi altro Paese della «periferia» del Continente, proprio perché a garantire sarebbe l’intera area euro.

Sotto questo aspetto l’Europa è però un’opera incompiuta: esistono una moneta unica, una Banca centrale e una politica monetaria comune, ma ci sono tante politiche fiscali, tanti ministeri del Tesoro a gestirle e tanti bilanci pubblici: uno per ogni Paese.

Crisi 2011: il primo vero tentativo
Di Eurobond, così come di un unico debito pubblico e di un’unica politica fiscale per l’Unione europea si parla probabilmente da sempre. Ma è con la crisi del debito pubblico europeo del 2011-2012 - quella innescata dalla Grecia, ma che arrivò a coinvolgere con il tempo anche Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, poi accomunati dalla sigla ignominiosa Pigs o Piigs - che il tema è tornato di stretta attualità, tanto che l’allora Commissione Ue guidata da José Manuel Barroso arrivò a formulare la prima vera proposta di introduzione di Eurobond.

La difficile convivenza
Mettere in comune i debiti non è però certo un’operazione semplice e indolore: in fondo non lo sarebbe neanche all'interno di una famiglia allargata. Perché se da una parte significa verosimilmente risparmiare sui costi necessari a sostenere il fabbisogno dei membri più deboli della comunità, riducendo allo stesso tempo anche pericolose oscillazioni delle spese per gli interessi, dall’altra si chiede un innegabile sacrificio a chi invece è generalmente considerato più solido, affidabile e parte quindi da un punto di forza.

Fra formiche e cicale
Così, è comprensibile che le istanze dei primi (i già citati Italia, Spagna e Grecia soprattutto), che chiedono un aiuto da destinare a investimenti in grado di andare potenzialmente a vantaggio di tutta l’Unione, si infrangano sulla fiera opposizione degli altri (Germania, sopravanzata negli ultimi tempi dall'Olanda, ma anche Austria, Finlandia e altri Paesi nordici) che invece sono preoccupati per la gestione delle risorse, in un duello che ricorda la proverbiale lotta fra formiche e cicale.

Tentativi infruttuosi
Dalla proposta Barroso in poi si è tornati con regolarità a porre sul piatto dell'Unione europea il tema di uno strumento comune di finanziamento, alla ricerca di un compromesso che si è però sempre rivelato irraggiungibile. Fino ad arrivare alla fase attuale, durante la quale si è coniato (finora altrettanto invano) il termine «coronabond» per identificare titoli di debito da emettere per finanziare le misure messe in atto per combattere l’epidemia e i suoi effetti devastanti sulle economie.

Il nodo dell’integrazione fiscale
L'idea di fondo è che la creazione di un debito comune nell’Eurozona sia poi anche accompagnata da una gestione centralizzata delle politiche economiche dei singoli Paesi o quantomeno da una maggiore integrazione fiscale.

Un sistema cioè dove sia la Commissione a rendere omogenee le politiche di bilancio dei singoli paesi membri ed eventualmente anche a decidere la destinazione e la misura dei fondi fra pensioni, investimenti pubblici, politiche a favore del lavoro e simili, con anche un maggior controllo sugli aspetti fiscali che le accompagnano: una crescente integrazione all’interno dell'Europa che si continua però a inseguire senza mai raggiungere.

Muro insormontabile
Ma come in passato il muro contro muro si ripropone, nonostante qualche distinguo in più (per esempio la Francia, colpita in modo pesante da Covid-19). Da una parte chi chiede comprensione e aiuto per raggiungere in fondo un bene comune, dall’altra chi invece ha scarsa fiducia ed esige in cambio una sorta di sacrificio, spesso sotto forma di condizioni e possibili piani di rientro del debito simili, almeno sul piano teorico, a quelli a suo tempo richiesti alla Grecia.

La storia, in fondo, si ripete.

Per approfondire:
Eurogruppo, intesa a metà: Fondo di ricostruzione tutto da negoziare
Conte: «Non useremo il Mes, servono gli Eurobond»
Eurogruppo, trovato accordo economico: piano di aiuti Ue da 1.000 mld

Riproduzione riservata ©
  • Maximilian CellinoRedattore

    Luogo: Milano

    Lingue parlate: italiano, inglese, tedesco

    Argomenti: Mercati finanziari, politiche monetarie, risparmio gestito, investimenti, fonti alternative di finanziamento, regolamento del sistema finanziario

    Premi: Premio State Street 2017 per il giornalista dell'anno - Categoria Innovazione

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