Gli insulti a Carola, una deriva da fermare con la legge
Con lo sbarco a Lampedusa della Sea Watch 3 sui social sono esplosi gli insulti contro Carola Rackete. Vere minacce la cui pericolosità e gravità va oltre l'episodio: nell'accanimento con cui si snocciolano gli attacchi a donne mediatamente al centro dell'attenzione c'è lo sdoganamento definitivo della brutalità. Ecco perché un intervento che definitivamente chiarisca la punibilità di questi comportamenti
di Serena Uccello
3' di lettura
Gli applausi e i “buuu”, i “vergognati” e i “forza”. La notte, in cui Carola Rackete lascia la Sea Watch 3 e tocca Lampedusa, l'isola ha questi suoni. La voce di chi si riconosce nella sua scelta di umanità e le voci di chi quella scelta la contesta. Sul web però le prime sembrano quasi scomparire perché la sguaiatezza delle seconde offusca la gentilezza del consenso. C'è chi le augura di «portarsi i migranti a casa sua, in Germania» - ed è il commento “meno” violento – e chi arriva ad augurarle la morte, di venire “affondata” insieme alla nave. In questa incomprensibile gara a chi la spara più grossa, a chi alza l’asticella, a chi sposta sempre più in là il limite del lecito sappiamo che purtroppo quello che sta accadendo a Carola è l'ennesimo atto di una deriva che diciamocelo ormai pare persino nella sua insensatezza sfuggita pure alla regia di chi l’ha innescata.
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Un vero e orrido sfogatoio pubblico che necessita di una risposta altrettanto pubblica, a maggior ragione se si consuma nello spazio, quale una pagina Facebook, di una forza politica: nelle ore dello sbarco infatti la Lega di Lampedusa ha pubblicato un video in diretta sulla sua propria pagina Facebook in cui è possibile ascoltare insulti rivolti sia alla 31enne tedesca sia ai migranti sbarcati in Italia, sia ai politici che erano a bordo della nave. «Spero che ti violentino questi ne**i, a quattro a quattro te lo devono infilare, ti piace il c**zo nero». Anche alle donne migranti vengono rivolti insulti simili. Ed: «Zingara, venduta, tossica, vattene in galera, drogata. Vai dalla Merkel, vergogna. Le manette!».
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Se questo è il quadro, la risposta deve essere identica a quella che si consumerebbe nella vita reale: la risposta della legge. Ogni intimidazione resta tale sia che si consumi de visu sia nella bolla della virtualità. Il danno non è minore, sappiamo, né minore è la sofferenza procurata. E questi insulti sono minacce, l'urlo qui è intimidazione.
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«Quella str… di Comandante, vada a comandare in Germania» scrivono in molti su Facebook, definendo Carola “esibizionista”, “arrogante”, “viziata”, “figlia di papà”. «La signorina capitana va arrestata e va affondato il barcone – scrive un utente – gli immigrati a casa loro, qui in Italia non c'è posto, ce ne sono troppi». «È solo un'esibizionista – commenta qualcun altro – perché non te li porti tutti a casa tua visto che il denaro non ti manca? Così ne fai buon uso».
Non ci serve analizzare quale acrimonia o ansia di rivalsa sociale ci sia dietro frasi come «è una bambina viziata che si vuol far conoscere lei è convinta che con i soldi può ottenere quello che vuole. Pensa di avere il potere in mano ma il cerchio si sta chiudendo anche per lei. È una bambina ipocrita e falsa». Ci serve a questo punto solo agire. Perché è evidente che la deriva pericolosa che c'è nell'accanimento con cui si snocciolano gli attacchi a donne mediatamente al centro dell'attenzione è lo sdoganamento definitivo della brutalità.
Pericoloso quanto l'attacco è il riflesso inconscio secondo il quale l'attacco faccia parte del gioco. Perché non è così. In particolare se gli insulti hanno sempre una connotazione sessuale e rimandano a un immaginario di prevaricazione e di subordinazione dell'identità femminile a quella maschile. Scrivere sui social è un atto pubblico, la cui portata è enfatizzata dall'assenza di limiti nella diffusione del messaggio che ha il web. Quindi si risalga a chi firma questi atti pubblici e si proceda. Subito. Le sentenze in tribunale cominciano ad esserci. Si dia continuità e diffusione. Certo in difesa di Carola, ma anche e soprattutto in difesa delle tante più anonime “carole” che finiscono nel mirino di chi, piccolo, allenato all'infamia da questa violenza verbale, si arroga l'arbitrio di colpire tronfio di impunità.
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