«Gli italiani non sono scemi»: la frase che i politici ci dovrebbero risparmiare
A chi si chiede se gli italiani sono “scemi”, dunque, occorrerebbe rispondere, come fa il premio Nobel Richard Thaler, che «le persone non sono sceme, è il mondo ad essere complicato» e non capirlo o far finta di non capirlo è il peggiore servizio che la politica possa rendere a noi cittadini
di Vittorio Pelligra
7' di lettura
«Gli italiani non sono scemi, sanno benissimo che…». Quante volte, purtroppo, anche di recente, ci è capitato di sentire il politico di turno pronunciare questa frase? Non tanto, naturalmente, perché egli creda che davvero gli italiani non siano «scemi» (scusate il termine, ma la citazione è letterale), ma perché attraverso questo espediente retorico si vogliono sostenere due posizioni, differenti ma speculari: la prima è che il politico di turno ha ragione, e siccome ha ragione, allora gli elettori - che non sono «scemi», gli daranno supporto con il loro voto nell'urna.
La seconda è che, siccome qualcuno l'ha votato, e questi non sono «scemi», allora lui ha ragione. Ma soprattutto l'espediente ha valore retorico perché chi volesse criticare le affermazioni del politico di turno si troverebbe costretto a negare che gli italiani non sono «scemi» e, quindi, ad affermarlo; il che, capite bene, se siete un politico o un giornalista, o un opinionista di sorta, può essere piuttosto controproducente in termini di consenso.
Naturalmente il ragionamento, benché logicamente valido, è falso, nei fatti, prima ancora che nella sua logica elementare. E questo chi non è «scemo» lo dovrebbe capire agevolmente, e quindi, secondo le premesse, lo dovrebbero capire tutti gli italiani. Purtroppo, però, ancora tanti cadono nell'espediente retorico. Ma perché, se il ragionamento è valido logicamente, le conclusioni sono sbagliate? Semplicemente perché le premesse sono false. È come se io dicessi, che tutti i francesi amano il formaggio, che io sono francese, e che, quindi, anche a me piace il formaggio.
Conclusioni sbagliate
Il sillogismo è valido, logicamente, ma la conclusione è fattualmente falsa, perché sono false le premesse, maggiore e minore, su cui essa si basa: che tutti i francesi amino il formaggio e che io sia francese. Per smontare l'argomento iniziale non è necessario affermare che gli italiani sono “scemi”, il che può essere imbarazzante - come abbiamo detto - ma, piuttosto, che le premesse dell'argomentazione sono false, fattualmente false. Si assume, come requisito minimale, infatti, che ogni cittadino sia in grado di decidere, in maniera razionale, quale sia la proposta politica che meglio garantisce i suoi interessi o anche che meglio risponde ai suoi ideali. Per far questo basta confrontare la struttura delle preferenze e dei valori di ogni individuo con le conseguenze delle proposte in campo e capire quali sono preferibili.
Così facendo si assume, ancora, che esista una struttura di preferenze e di valori stabili e fissi “all'interno” di ognuno di noi. Io preferisco le mele alle pere, per cui se qualcuno mi offre le mele e qualcun altro le pere, io voterò per il primo. Il problema è che un simile “ordinamento di preferenze”, precostituito e stabile, non esiste. Parliamo del valore di una vita, per esempio. Un aspetto sul quale ognuno di noi dovrebbe avere delle idee ben chiare, vista l'importanza del tema. Quanto vale per me una vita? Immaginate che vi diano diritto di vita e di morte su di un topolino da laboratorio. Immaginate, ancora, che vi chiedano se siete disposti a vendere tale diritto, a decretare, quindi, la morte anticipata di quel topolino per una somma equivalente a dieci euro.
Dieci euro per uccidere un topolino
Cioè, voi ricevete dieci euro e questo segnerà la morte anticipata del topolino. Il quesito è stato effettivamente posto nell'ambito di un recente studio, con il risultato che il 45.9% dei 160 partecipanti ha accettato di vendere il diritto alla vita del topolino in cambio dei dieci euro. Difficile dire se la percentuale sia alta o bassa, non era questo, in fondo, l'obiettivo dello studio. Immaginate ora che la stessa scelta, vendere il diritto alla vita del topolino, sia posta non sotto forma di “prendere o lasciare”, come nel caso precedente, ma sia frutto di un processo di contrattazione, simile a quello che avviene in un'asta, nella quale il compratore offre vari prezzi e voi dovete decidere quando accettare e quando no. Qui emerge il risultato sorprendente: in questo caso, infatti, ad accettare una cifra uguale o inferiore ai dieci euro è il 72.2% dei 178 partecipanti a questa variante dello studio (Falk, A. e Szech, A., 2013. “Morals and Markets”. Science 340, pp. 707-711).
Scelta secca o contrattazione?
Le conclusioni dello studio mostrano che la vita del topolino vale, in media, di più o di meno in relazione al modo in cui tale valore viene rivelato: una scelta secca o una contrattazione di mercato. Una valutazione così importante come quella relativa alla vita di un essere vivente viene sistematicamente alterata da fattori esterni che riguardano il contesto del processo decisionale e che nessuna influenza dovrebbero avere con la struttura dei nostri valori e delle nostre convinzioni più profonde.
Preferenze arbitrarie
Eppure, questo è ciò che accade. Attribuiamo più o meno valore allo stesso “bene”, al variare di qualcosa che con tale valore non dovrebbe avere niente a che fare. Le nostre preferenze sono, in questo senso, del tutto arbitrarie. Ma questo è solo uno dei possibili esempi. Si pensi a temi sensibili come il lavoro minorile, la condizione degli animali negli allevamenti intensivi o i danni ambientali dovuti alle produzioni altamente inquinanti. Siamo tutti convinti sostenitori dei diritti dei bambini, del benessere animale e della salvaguardia dell'ambiente, eppure, quando questi valori passano attraverso la logica della contrattazione di mercato, tendenzialmente si continua a preferire il prezzo più basso anche a costo di chiudere un occhio su diritti e ambiente.
Correlazioni impensabili
Non sempre e non tutti, naturalmente, ma questa tendenza esiste. Scelte arbitrarie, abbiamo detto, eppure coerenti, nella loro arbitrarietà. Provate, infatti, a pensare, ora, a quanto sareste disposti a pagare per acquistare una bottiglia di un buon vino d'annata o una tastiera cordless per computer o un libro d'arte illustrato. Cercate prima, però, di ricordare le ultime due cifre del vostro codice fiscale. Che cosa c'entra? Niente. Proprio per questo cosa pensereste se vi dicessi che il primo valore viene influenzato dal secondo? Se vi dicessi, cioè, che coloro che nel codice fiscale hanno cifre più alte sono disposti a pagare un prezzo più elevato per vino, tastiera e libro, di chi invece ha numeri più bassi? Pazzia! Eppure, è proprio questo ciò che capita a causa del fenomeno dell'”ancoraggio” (Ariely D. et al. 2004. “Coherent Arbitrariness: Stable Demand Curves Without Stable Preferences”. Quarterly Journal of Economics 118(1), pp. 73-106).
Le nostre preferenze, infatti, si “ancorano” ad elementi esterni del tutto arbitrari che dovrebbero essere ininfluenti rispetto alle scelte che stiamo facendo e le condizionano e le determinano in maniera sistematica. Proprio perché non esistono preferenze antecedenti alle scelte, come il nostro senso comune vorrebbe farci credere, ma, piuttosto, le nostre preferenze, i nostri gusti e i nostri valori, si plasmano e si determinano “nelle” scelte, attraverso le scelte.
Eppure, questo non significa che le nostre valutazioni siano del tutto erratiche. Per esempio, il prezzo del vino, maggiore o minore, risulta essere sistematicamente più alto di quello del libro e di quello della tastiera. Nonostante, all'interno della stessa categoria di beni, la disponibilità a pagare aumenti al crescere delle cifre del proprio codice fiscale (nello studio originale è stato usato il numero di previdenza sociale). Le nostre scelte non sono indotte da un sistema stabile e dato di preferenze, ma piuttosto solo le scelte stesse a determinare le nostre preferenze e, soprattutto, le giustificazioni che ci diamo per aver fatto questo piuttosto che quello.
La differenza tra dare e ricevere
Ma questa attività è coerente, pur nella sua arbitrarietà. In un altro esperimento, per esempio, l'economista Dan Ariely chiede ai suoi studenti quanto sarebbero stati disposti a pagarlo per fargli recitare delle poesie. In media ottiene offerte che si discostano poco dal dollaro. Ad un altro gruppo di studenti, invece, chiede quale cifra sarebbero stati disposti a accettare per ascoltarlo recitare poesie. Anche qua, in media, gli studenti parlano di un dollaro circa. Ma in un caso si trattava di sborsarli, nell'altro, invece, di riceverli. Gettare un'àncora sotto forma di “dare” o “ricevere” cambia completamente il comportamento degli studenti di Ariely, così come avrebbe fatto con tutti noi.
Nell'ambito del marketing politico questo fa capire quanto siamo facilissimamente manipolabili e quanto l'effetto di tali manipolazioni sia persistente e stabile nel tempo. Una volta gettata l'”àncora”, il nostro comportamento potrà variare, ma varierà in maniera facilmente prevedibile. Non esiste una struttura di preferenze stabile, preordinata e coerente cui fare riferimento come criterio di scelta e bussola delle nostre decisioni. Esiste piuttosto un'interazione complessa tra ciò che crediamo e facciamo e che, nella maggior parte dei casi, crediamo dopo aver fatto. Le nostre convinzioni più profonde, cioè, a volte non sono che razionalizzazioni ex-post di azioni che abbiamo già compiuto e di scelte che abbiamo già operato.
Cui prodest?
Nonostante tutto questo, non sarebbe corretto derivarne una sfiducia radicale verso le nostre capacità decisionali o verso la possibilità di operare scelte sensate. Piuttosto dovremmo sempre chiederci, prima di scegliere, sulla base di quale àncora stiamo effettuando le nostre valutazioni; chi ci ha gettato quell'àncora e chi avrebbe da guadagnarci e perché. “Cui prodest?”, dicevano i latini. La nuova consapevolezza che le scienze comportamentali ci danno rispetto ai processi cognitivi che determinano le nostre scelte, dovrebbe essere utilizzata come una forma di igiene mentale, di pulizia dalle scorie e dalle incrostazioni che, sistematicamente, producono distorsioni (bias) nelle nostre decisioni. Una grande e capillare operazione di de-biasing sarebbe un'opera meritoria da parte di esperti a della stampa, soprattutto, che a volte, invece, non fa altro che rinforzare certi atteggiamenti fuorvianti e rilanciare modalità comunicative distorte. A chi si chiede se gli italiani sono “scemi”, dunque, occorrerebbe rispondere, come fa il premio Nobel Richard Thaler, che «le persone non sono sceme, è il mondo ad essere complicato» e non capirlo o far finta di non capirlo è il peggiore servizio che la politica possa rendere a noi cittadini.
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